lunedì 15 agosto 2011

Εὐριπίδης - Euripides, Aλκηστις - Alkestis - Alceste - Alcestis - Alcesti


FABULA_ALCESTI@PUNTOSEIUNO.IT

ADATTAMENTO SCENICO
DA EURIPIDE

A cura di 
Giovanni Pititto




Εὐριπίδης


Aλκηστις

(Ἀνάγκη ?)
(a cura di Giovanni Pititto)



Ich nahm ja Abschied. 

Abschied über Abschied. 

 

Rainer Maria Rilke

Alkestis

Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse più di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene... (e subito sarà
tra le braccia che s'aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch'ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d'oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.
Nessun morente più di me, che vengo
perchè tutto,sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.

Come la brezza che si leva al largo,
il dio s'avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall'uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l'uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente...
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere più che quel sorriso.





Frederic Leighton,
Hercules Wrestling with Dear for the Body of Alcestis,
(1869-71),
Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, C.T.
The Ella Gallup and Mary Catlin Sumner Collection Fund.



Rainer Maria Rilke

Ich nahm ja Abschied. 
Abschied über Abschied. 
Alkestis

Da plötzlich war der Bote unter ihnen 
hineingeworfen in das Überkochen 
des Hochzeitmahles wie ein neuer Zusatz. 
Sie fühlten nicht, die Trinkenden, des Gottes 
heimlichen Eintritt, welcher seine Gottheit 
so an sich hielt wie einen nassen Mantel 
und ihrer einer schien, der oder jener, 
wie er so durchging. Aber plötzlich sah 
mitten im Sprechen einer von den Gästen 
den jungen Hausherrn oben an dem Tische 
wie in die Höh gerissen, nicht mehr liegend, 
und überall und mit dem ganzen Wesen 
ein Fremdes spiegelnd, das ihn furchtbar ansprach. 
Und gleich darauf, als klärte sich die Mischung, 
war Stille; nur mit einem Satz am Boden 
von trüben Lärm und einem Niederschlag 
fallenden Lallens, schon verdorben riechend 
nach dumpfen umgestandenen Gelächter. 
Und da erkannten sie den schlanken Gott, 
und wie er dastand, innerlich voll Sendung 
und unerbittlich, - wußten sie es beinah. 
Und doch, als es gesagt war, war es mehr 
als alles Wissen, gar nicht zu begreifen. 
Admet muß sterben. Wann? In dieser Stunde.
Der aber brach die Schale seines Schreckens 
in Stücken ab und streckte seine Hände 
heraus aus ihr, um mit dem Gott zu handeln. 
Um Jahre, um ein einziges Jahr noch Jugend, 
um Monate, um Wochen, um ein paar Tage, 
ach, Tage nicht, um Nächte, nur um Eine, 
um Eine Nacht, um diese nur: um die. 
Der Gott verneinte, und da schrie er auf 
und schrie's hinaus und hielt es nicht und schrie 
wie seine Mutter aufschrie beim Gebären.
Und die trat zu ihm, eine alte Frau, 
und auch der Vater kam, der alte Vater, 
und beide standen, alt, veraltet, ratlos, 
beim Schreienden, der plötzlich, wie noch nie 
so nah, sie ansah, abbrach, schluckte, sagte: 
Vater, 
liegt dir denn viel daran an diesem Rest, 
an diesem Satz, der dich beim Schlingen hindert? 
Geh, gieß ihn weg. Und du, du alte Frau, 
Matrone, 
was tust du denn noch hier: du hast geboren. 
Und beide hielt er sie wie Opfertiere 
in Einem Griff. Auf einmal ließ er los 
und stieß die Alten fort, voll Einfall, strahlend 
und atemholend, rufend: Kreon, Kreon! 
Und nichts als das; und nichts als diesen Namen. 
Aber in seinem Antlitz stand das Andere, 
das er nicht sagte, namenlos erwartend, 
wie ers dem jungen Freunde, dem Geliebten, 
erglühend hinhielt übern wirren Tisch. 
Die Alten (stand da), siehst du, sind kein Loskauf, 
sie sind verbraucht und schlecht und beinah wertlos, 
du aber, du, in deiner ganzen Schönheit -
Da aber sah er seinen Freund nicht mehr. 
Er blieb zurück, und das, was kam, war sie, 
ein wenig kleiner fast, als er sie kannte 
und leicht und traurig in dem bleichen Brautkleid. 
Die andern alle sind nur ihre Gasse, 
durch die sie kommt und kommt -: (gleich wird sie da sein 
in seinen Armen, die sich schmerzhaft auftun).
Doch wie er wartet, spricht sie; nicht zu ihm. 
Sie spricht zum Gotte, und der Gott vernimmt sie, 
und alle hörens gleichsam erst im Gotte:
Ersatz kann keiner für ihn sein. Ich bins. 
Ich bin Ersatz. Denn keiner ist zu Ende 
wie ich es bin. Was bleibt mir denn von dem 
was ich hier war? Das ists ja, daß ich sterbe. 
Hat sie dirs nicht gesagt, da sie dirs auftrug, 
daß jenes Lager, das da drinnen wartet, 
zur Unterwelt gehört? Ich nahm ja Abschied. 
Abschied über Abschied. 
Kein Sterbender nimmt mehr davon. Ich ging ja, 
damit das Alles, unter Dem begraben 
der jetzt mein Gatte ist, zergeht, sich auflöst -. 
So führ mich hin: ich sterbe ja für ihn.
Und wie der Wind auf hoher See, der umspringt, 
so trat der Gott fast wie zu einer Toten 
und war auf einmal weit von ihrem Gatten, 
dem er, versteckt in einem kleinen Zeichen, 
die hundert Leben dieser Erde zuwarf. 
Der stürzte taumelnd zu den beiden hin 
und griff nach ihnen wie im Traum. Sie gingen 
schon auf den Eingang zu, in dem die Frauen 
verweint sich drängten. Aber einmal sah 
er noch des Mädchens Antlitz, das sich wandte 
mit einem Lächeln, hell wie eine Hoffnung, 
die beinahe ein Versprechen war: erwachsen 
zurückzukommen aus dem tifen Tode 
zu ihm, dem Lebenden -
Da schlug er jäh 
die Hände vors Gesicht, wie er so kniete, 
um nichts zu sehen mehr nach diesem Lächeln.
Rainer Maria Rilke
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(Da:
http://www.unix-ag.uni-kl.de/~kasparek/Rilke/Alkestis.html . Si ringrazia)









Euripides, Aλκηστις. Christoph Willibald Gluck,  Alkestis - Alceste - Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi - Jessye Norman. 
(Da http://www.youtube.com/watch?v=AG-wMqtMb1g&feature=related / Caricato su Youtube da in data 25 luglio 2008. Si ringrazia).





Ἀνάγκη.
Ananke ?
Come per Euridice?
Dalla Notte dei Miti la Fabula Orphei è sospesa tra lo sprezzante giudizio di Platone
e la tragica conclusione di Cesare Pavese.




Christoph Willibald Gluck - Orphée et Eurydice (Orpheus among the Blessed Spirits)


Ananke?
Se per Euridice la "Necessità" (Ananke):
l'assoggettarsi all'immodificabilità della sua condizione
ne fu una dolorosa costrizione;
si allontana, da Orfeo;
torna indietro;
agisce in un dover "permanere",
per Alcesti fu una scelta.

Anche questa dettata dall'insopprimibile ed immodificabile Ananke (Necessità): "salvare"?
Chi? Un Admeto?
Colui che chiede al Padre?
Colui che ne vorrebbe dalla Madre?
Colui che ne spera nell'Amico?
Ne era consapevole Alcesti? 

- Sì. 

Cosa la spinse, dunque? 
La Pietà. 
Ananke dunque. 

- Sì, la Necessità: 
l'assoggettarsi all'immodificabilità di una condizione:
Far vivere.
E in quel contesto Qualcuno doveva morire.  
E' Morta per un Admeto, Alcesti? Forse una rilettura di Euripide sarebbe opportuna. Alcesti era una Madre. E si sacrifica per i figli.


  ALCESTE 
  "Ombre, larve, compagne di morte
non vi chiedo, non voglio pietà.
Se vi tolgo l'amato consorte,
v'abbandono una sposa fedel.

Non mi lagno di questa mia sorte,
questo cambio non chiamo crudel.
Ombre, larve, compagne di morte
non v'offenda sì giusta pietà.

Forza ignota che in petto mi sento,
m'avvalora, mi sprona al cimento:
di me stessa più grande mi fa.

Ombre, larve, compagne di morte
non vi chiedo, non voglio pietà.

(Gluck, Alcesti, Act I, Scene V: Aria: Ombre, larve, compagne di morte).


II.

Ἀνάγκη.
Ananke ?

APOLLO.
(...)
APOLLO
Essenza l'Alba cambiò.  Volse le spalle alla Vita. E Morte oggi reclama.  Thanato rapace correre vedo. Lei attende; membra trascina; a braccia portata; sua anima pronta. Per Admeto muore. A che egli non pèra.
Lotta sostenni con le Parche fiere; tutto per Admeto io ottenni: che per pagar mio debito egli non muoia. Vollero Elle altri ne paghi.
Gambe braccia polvere piedi tutto abbracciò, Admeto: invano. Nessuno volle morire; per lui.
E ne chiese supplice al Padre; coraggio o viltà non gli mancò dall'esigere dalla Nivèa Madre. Invano. 
Solo Lei, Lei e solo - da sola s'offrì. 
Non n'era obbligata. 
Se non che Tutti, obbligati ne siamo: Ananke. (Gp) 
    

TANATO
Tànato (Appare improvviso. E' un giovine avvolto in un peplo nero: impugna una spada).

(Apollo e Tànato escono, uno da una parte, uno dall'altra. Dalle due párodoi avanza il coro, composto di cittadini di Fère, uomini, donne, giovani, vecchi. I due corifei cantano la strofe e l'antistrofe. Altri, a volta a volta, prendono la parola).

(...)

PRIMO CORIFEO
Ananke Alcesti avvolge.
Dei l'attendono Sopra, se viver forte volesse.
Alcesti Ananke avvolge.
Dei l'attendono Sotto, se passiva del Fato complice sia.

Pure proviamo farle sentire l'Eco del nostro dolore:

"Alcesti! Ti sei chiusa in un silenzio impenetrabile. In una barriera tutta tua. Fatta di stanchezza e sicuramente di dolori. Nulla esiste più; e nessuno. Esiste solo il dolore tuo, lo stupore tuo, il senso di abbandono, tuo.
Richiamo disperato che al tuo nido di voluttà di morte dal popol tuo giunge non infrange tal'abbandono, tale stanchezza, tale dolore. Hai curato di vita non te ne giunga voce. Più.
Gridiamo dunque verso le montagne sacre: a che almen te ne giunga l'eco. A che tu sappia. A che tu veda. Che la Vita non chiede. Ma c'è. Non abbandonarla per una causa persa. 
Di capo raso, di neri ammanti lì ci approssimiamo, noi. Testimoniarti almen che il giorno nostro è pieno della stanchezza tua, dell'abbandono tuo, della tristezza, tua.
Ma non dell'abbandono nostro." (Gp) 



<ANCELLA>  
Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci. (Ro)

(...)
PRIMO CORIFEO: 
Alcesti! Una tazza scalda la mano nel freddo diaccio di un'altra mattina ove solo speranza migliori il tuo stato allevia la pena. Speranza si specchia in raggio dorato di luce sopra di me. Ti trasfonda fiducia. Verso essa te volgi. (Gp)


<ANCELLA>  
(...)
   Entrò quindi nel talamo, sul letto nuziale; e qui pianse, e favellò. (Ro)


<ALCESTI>  
«Letto che avesti il fior della mia vita, addio: non t'odio io, no, sebbene muoio solo per te: per non tradir lo sposo e te, muoio. Sarai d'un'altra donna, non piú casta di me: piú fortunata». (Ro)


<ANCELLA>
   E su vi cade; e lo bacia; e d'un fiotto di lagrime la coltre è molle tutta. (Ro)
  (...)


ANCELLA
   Tien fra le braccia la diletta sposa, e piange, e prega perché non lo lasci. L'impossibile cerca! Ella si strugge nel suo male, si disfa, s'abbandona, triste peso, al suo braccio. E, benché poco  respiri piú, del sole i raggi anela. (Ro)


PRIMO CORIFEO - Strofe terza  
(...)
Giungi anche adesso, giungi, frena Averno sanguineo, e la morte tien lungi. (Ro)

SECONDO CORIFEO - Antistrofe terza  
Parti!, popolo di Fère, come gli Eroi Antichi parti - fra mille perigli parti - per mortificare te, se Alcesti la Nera Porta varca.
Fortifica te, popolo di Fère; e avanza - avanza continua questo Viaggio all'interno dell'Alcesti relitta da Tempesta fra gli sprazzi dell'animo suo su di una spiaggia sparsi. Ricomponili.
Totem, un totem ne sia d'Amor Fortezza Carità rimodellane sulla mentale sabbia. Carità non le negare o fiero popolo cui a breve t'è negata la Regina. Nella Tempesta seguila. Nel muggìto del suolo di quel lago oscuro di profondo Abisso non lasciarla sola. Volgila almeno verso un raggio di Luce. (Gp)

(Entra Admèto, sostenendo Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. Ancelle, servi, guardie)

ALCESTI
  
Sole, Luce di Vita; diafane limpide nubi veloci. (Gp)


ADMÈTO:
  
Ci vede, Sì, il Sole. Sventura, su noi portiamo, noi che ai Numi pur nulla facemmo. Ci vede, sì, il Sole. Che ti rapisce. (Gp)


ALCESTI
  
Terra. Riparo. Mi desti alla luce. Jolco. Tu Jolco mio Jolco. (Gp)


ADMÈTO:
  
Oh! Misera. Sorgi. Sorgi Alzati non disporti di già, abbi abbiate abbi oh sì! Pietà. (Gp)


ALCESTI
  
Vedo. Lo, vedo. Caronte grida. Aspìra, mi prende, la sua voce. (Gp)


ADMÈTO:
  
Non comprendo. Aiutà...mi, a capi...re. (Gp)


ALCESTI
  
Tienimi. Trattienimi. Qualcuno tenga, il corpo mio così dall'Ade violentemente preso. Opponetevi...fatemi vivere! (Gp)


ADMÈTO:
  
Piangiamo. Ti, piangiamo. Chè ci abbandoni. (Gp)


ALCESTI
  
Vostra è o Figli la Luce e questa, del radioso giorno. La Madre la Vostra oggi Non E'. Notte, la notte, è in me. Adagìatemi, ora. Ora lascìatemi. (Gp)


ADMÈTO:
  
Tu sola, per me, vivere o morire. Sorgi, o io morrò. Pei figli, sorgi. Per me che del Destin di di Ciò e Tanto ho duro il capire. (Gp)


ALCESTI
  
Tu, a Te, or io dico: potevo vivere; volevo vivere; ma saresti morto tu. Abbandonata io, derelitti i figli miei. Lasciai la giovinezza la vita, mia, a che tu viva. I miei figli con te. S'oppose un Dio a che vivessi, io. Vivessero i figli, con me. Mancando te. A tutti chiedesti. Tutti tradisti, loro il Tutto chiedendo. Tradisti il Padre. Tradisti la Madre. Da tutti tradito, loro chiesto e negato.
Muoio io, per te. Vivi tu. Sii però Padre. Sii però Madre, pei figli nostri. Non abbandonarli a mano violenta matrigna. Non sposarti, s'almen loro hai tu cari.
Me lo devi. Non per me, che pur muoio; e muoio per te.
Me lo devi per lei: povera bimba: chi ti cullerà nella giovane vita?! Chi, di madre e da madre, a te, un dì novella sposa, t'assisterà; da chi di chi di una parola il conforto di un sospiro il dono di carezza lieve quando tu partorirai? Io devo Andare, lo sai. Non potrò esserci. Ti sentirai sola. Ricordami; non per me ricordami; non per me, ma a che tu non te ne senta derelitta e e sola: tua madre fui. (Gp)


ADMÈTO:
   
Ai Numi solo chiedo: mi sia concesso gioìre; de' figli, ora, che di te più non m'è dato. Mi vestirò a sempiternolutto. Abolirò feste e banchetti. Odierò mio Padre. Che morire non volle per me. Odierò mia Madre. Che vita sua vita la sua di vita non mi volle dare. Sarò triste. Ma tomba Tomba Solenne avrai. La figura tua d'artista distesa su d'essa vedrò. Ad essa il capo appoggerò. Pensando di stringerti. Stringerti a me.
Tu aspettami.
Vi foss'io Orfeo! Se il suono suo de le parole d'Incanto verrei, io, sì, verrei: nel Luogo ove Gelate ne sono le Stelle. A del Suono scioglierle. Di pietà. Di Pietà per Te.
Non sono, Orfeo. Non sono. Ma tu aspettami. Quand'io morrò, sì, verrò. A stendermi al tuo fianco, verrò. (Gp)



PRIMO CORIFEO:   Spirò. Spenta d'Admèto è la consorte. (Ro)

***
(Euripide, Alcesti)
(Ro): Traduzione da Euripide e versione di Romagnoli.
(Gp): Adattamento Scenico di Giovanni Pititto: Fabula Alcesti- PuntoSei-Uno.




NOTE

Su Frederic Leighton, Hercules Wrestling with Dear for the Body of Alcestis, (1869-71), Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, C.T. The Ella Gallup and Mary Catlin Sumner Collection Fund, cfr. Margot Th. Brandlhuber and Michael Buhrs, Frederic Lord Lighton. 1830 - 1896. Painter and Sculptor of the Victorian Age, Prestel - Munich, 2009, pag. 22. (Note editoriali: "This book is publisched on the occasion of the exhibition Frederic Lord Lighton. 1830 - 1896. Painter and Sculptor of the Victorian Age. An exhibition organized by the Museum Villa Stuck, Munich, in collaboration with Leighton Museum London, Royal Borough of Kensington and Chelsea. May 30 - September 13, 2009, Museum Villa Stuck, Munich, http://www.villastuck.de/

Per il montaggio grafico in questa pagina web ci si è avvalsi della illustrazione dell'opera di Leighton, in: http://www.sschool8.narod.ru/Masters/Laiton/ , alla posizione: http://www.sschool8.narod.ru/Masters/Laiton/755a.jpg (Si ringrazia).


Per il video su Christoph Willibald Gluck,  Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi, nell'interpretazione di Jessye Norman: Fondamentale nella riforma gluckiana dell'Opera dopo l'Orfeo ed Euridice, venne presentata al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre 1767. - Jessye Norman sings: The wonderful long lines of Gluck, served by the wonderful breath, diction, and vocal tones of Norman in "Ah malgré moi" (act 2) and "Ah divinités implacables" (act 3) - (Chicago, 1990).
(Da
http://www.youtube.com/watch?v=AG-wMqtMb1g&feature=related / Caricato su Youtube da in data 25 luglio 2008. Si ringrazia).



APPARATI



II.

Ἀνάγκη.
Ananke ?

APOLLO.
(...)
APOLLO
Ora io da morte, deludendo le Parche, lo salvai. Mi concessero quelle che l'Averno schivar potesse Admèto, se in sua vece offrisse un altro agl'Inferi. Provò tutti gli amici, a tutti ebbe ricorso, e al padre e alla canuta madre; e niuno trovò, tranne la sposa, che sostenne per lui morire, e abbandonar la luce.  


Ella, portata a braccia, or ne la casa l'anima rende. Ché morire deve in questo giorno, e abbandonar la vita. Or la casa diletta io lasciar devo, perché me non contamini il contagio. Ché già Tànato veggo avvicinarsi, sacerdote dei morti, che la donna condurrà nell'Averno.
Il dí spiava ch'ella morir dovesse; e in punto giunse. (Ro)

    

TANATO
Tànato (Appare improvviso. E' un giovine avvolto in un peplo nero: impugna una spada):   
Che fai su la soglia? Che giri qui attorno? Non operi, o Febo, secondo giustizia, che predi agl'Inferi i loro diritti!
   Assai non ti fu contrastare al fato d'Admèto, eludendo con arte di frode le Parche, che, armata la destra dell'arco, or giungi a soccorrer la sposa, la figlia di Pelio, che sé offriva alla morte, se salvo facesse lo sposo?

(Apollo e Tànato escono, uno da una parte, uno dall'altra. Dalle due párodoi avanza il coro, composto di cittadini di Fère, uomini, donne, giovani, vecchi. I due corifei cantano la strofe e l'antistrofe. Altri, a volta a volta, prendono la parola).

(...)
PRIMO CORIFEO -
Strofa seconda  
Né su la terra è plaga, non la Licia, né l'arida dell'Ammonio dimora, a cui volger la prora alcuno possa, e l'anima della misera Alcèsti riscattar: ché su lei pesa l'ineluttabile Fato.
Di quali Dei mover debba all'altare non so, né quali debba ostie sgozzare. (Ro)

<ANCELLA>  
Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci.
Poi che giungere vide il giorno estremo, volonterosa, pria le pure membra lavò nella corrente acqua; e dall'arche di cedro, vesti ed ornamenti trasse, e s'abbigliò compostamente.
(...)

E stando presso all'ara di Vesta, la pregò:
<ALCESTI>  
«Ora che ai regni sotterranei scendo, quest'ultima preghiera, o Dea, ti volgo.
   Proteggi i figli miei. Fida una sposa unisci a questo: un generoso sposo  a questa. E non come io, lor madre, muoio, muoiano innanzi tempo i figli miei; ma nella patria vivano felici».


PRIMO CORIFEO: 
Di sí nobile sposa andare privo! Certo, per questo male Admèto piange. (Ro)


<ANCELLA>  
E a quanti altari nella reggia sono, andò, li ghirlandò, pregò, scerpendo dalla chioma d'un mirto i ramicelli, senza pianto, né gemito: né il vago viso turbava l'imminente fine.
   Entrò quindi nel talamo, sul letto nuziale; e qui pianse, e favellò.

<ALCESTI>  
«Letto che avesti il fior della mia vita, addio: non t'odio io, no, sebbene muoio solo per te: per non tradir lo sposo e te, muoio. Sarai d'un'altra donna, non piú casta di me: piú fortunata».

<ANCELLA>
   E su vi cade; e lo bacia; e d'un fiotto di lagrime la coltre è molle tutta.
   Or, poi che sazia fu del pianto lungo, si stacca dalle coltri, e s'allontana.
   Ma nell'uscir dal talamo, si volge piú volte; e sovra il letto ancor si gitta.
   Stretti alle vesti della madre, i figli piangeano. In braccio essa li prese: e già moribonda, baciava or l'uno or l'altra.
   Tutti i servi piangean nella dimora, per la pietà della regina. Ed essa tese a tutti la destra. E niuno v'era umil cosí, che a lui non favellasse, che a lei non rispondesse. Ecco che avviene nella casa d'Admèto. Oh, s'egli fosse morto, non piú sarebbe. Ma, scampato, tale è il suo duol, che non avrà mai fine.



ANCELLA
   Tien fra le braccia la diletta sposa, e piange, e prega perché non lo lasci. L'impossibile cerca! Ella si strugge nel suo male, si disfa, s'abbandona, triste peso, al suo braccio. E, benché poco  respiri piú, del sole i raggi anela.


PRIMO CORIFEO - Strofe terza   Oh dio Peane, trova rimedio tu pei casi tristi d'Admèto, e a lui lo porgi. Un'altra volta già tu lo rinvenisti. Giungi anche adesso, giungi, frena Averno sanguineo, e la morte tien lungi.
A:
   Ahimè, ahimè! Che sposa a te s'invola, o figliuol di Fèrete! Ahi, sventura, sventura!
B:
   Stringere ei non dovrebbe alla sua gola laccio funesto, o spegnersi di morte anche piú dura?
C:
   La tua, cara non dico, carissima consorte, veder dovrai quest'oggi cader preda alla morte.

SECONDO CORIFEO -
Antistrofe terza   Oh vedi, vedi! Esce già dalla reggia anche il signore. Ulula, piangi tu, suolo di Fère! Dal morbo la migliore delle donne consunta, per sotterraneo valico nel buio Averno è giunta.  (...) (Ro)


(Entra Admèto, sostenendo Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. Ancelle, servi, guardie)

ALCESTI
   Sole, luce del giorno, ètere, limpide veloci nuvole! / (Ro)

ADMÈTO:
   Te vede il sole e me, due sventurati. Nulla offendemmo i Numi: eppur tu muori. / (Ro)

ALCESTI
   Terra, tetto dell'atrio, nuzial talamo di Jolco mia! / (Ro)

ADMÈTO:
   Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega gli Dei possenti ch'abbiano pietà. / (Ro)

ALCESTI
   Vedo la cimba, vedo! Con la mano sul remo, Caronte, il navicchiere dei defunti, gia già  mi chiama. «Non t'affretti? Che indugi? Tarderemo per te!» La sua parola piú veloce mi fa. / (Ro)

ADMÈTO:
   Misero me! Di che partenza dura favelli! Qual su noi piombò sventura! / (Ro)

ALCESTI
   Mi tragge alcun, mi tragge! Su me confitta è d'Ade la cerula pupilla fosca: trascina me dei morti all'aula. - Lasciami. Che mi fai? - Per che strade, o donna infelicissima, volgere debbo il pie'! / (Ro)

ADMÈTO:
   Strade di pianto per gli amici, e piú per me, pei figli, che abbandoni in lutto. / (Ro)

ALCESTI
   Lasciatemi, lasciatemi, adagiatemi. Piú non mi reggono i piedi. Morte è già presso: ombrosa notte sopra gli occhi repe. Figli, figli, la madre vostra non vive piú. Addio, figli, godete questa luce del giorno. / (Ro)

ADMÈTO:
   Ahimè! Questi detti al mio cuore son piú che ogni morte funesti!
Oh no, non partire, ti prego pei Numi, pei figli che tu lasci orfani!
Sorgi, fa' cuore! Se muori, io morrò. Tu sola puoi darmi la vita o la morte. / (Ro)
ALCESTI
   Admèto, a te che la mia sorte vedi, dirò, pria di morir, quello che bramo.
Io piú che me, te caro avendo, a prezzo del viver mio, la luce a te serbata, muoio. E potevo non morir per te, ma chi volessi sposo aver dei Tèssali, e sovrana regnar ne la mia reggia. Ma divelta da te non volli vivere coi figli derelitti; e abbandonai di giovinezza i doni ond'io godevo. 
L'uom che te generò, la madre tua ti tradirono. Ed erano pur giunti agli anni in cui lasciar la vita è giusto; e bello era per lor salvare il figlio, gloriosa la morte; e avean te solo, né speranza d'avere altri figliuoli se tu morivi; ed io vissuto avrei sempre vicino a te; né tu soletto piangeresti la sposa, e i figli tuoi orfani educheresti.
Ma un Dio volle che cosí fosse tutto questo.
E sia.
Ma tu, memore, rendimi una grazia. Al beneficio pari non sarà, ché nulla val quanto la vita vale;
ma ben giusta: e tu stesso lo dirai: ch'ami non men di me questi fanciulli, se pure hai senno.
Fa' ch'essi padroni sian della casa mia, schiva le nozze, ai figli miei non dare una matrigna, che, non avendo il cuore mio, per astio, sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano.
Non farlo, no, ti prego.
Ai primi figli sopraggiunge nemica una matrigna: cuore non ha piú mite d'una vipera. 
Il figlio maschio trova un baluardo nel padre suo; ma tu, pargola mia, chi curerà la tua giovine vita? Come sarà con te la nuova sposa del padre tuo? Di mala fama, forse, nei floridi anni tuoi ti brutterà, sí che distrugga le tue nozze. Sposa te non farà la madre: ai parti, o figlia, te non assisterà, dove nessuno ha d'una madre il cuore!
Io morir devo, e non domani, e non il terzo dí  del mese, il mal m'attende; ma fra poco viva chiamar me non potrete.
Addio, siate felici.
Gloriarti, o sposo, potrai che la tua sposa ottima fu: e voi, figliuoli, della madre vostra. (...) / (Ro)

ADMÈTO:
   Sarà, tutto sarà. Non temere. Io t'ebbi sposa da viva; e morta, ancora unica sposa mia detta sarai. Niuna Tessala piú mi chiamerà sposo, e sia pur di nobil sangue, sia di vaghissime forme. Ai Numi, questo soltanto io chiedo: che mi sia concesso gioir dei figli, or che di te gioire piú non m'è dato. E non un anno il lutto tuo porterò; ma sin ch'io resti in vita, o sposa: e aborrirò la madre mia, il padre aborrirò. M'erano amici, non a fatti, a parole. Invece tu, la carissima vita in cambio offerta, salvato m'hai. Come potrei non piangere, perduta avendo una compagna tale?
   Porrò fine ai convivî, ed ai simposî, alle ghirlande, ai canti che sonavano nella mia casa. Piú non toccherò cetra, né piú solleverò lo spirito, cantando al suon di flauto libio. Tu della vita m'hai tolto ogni diletto.
   La tua figura effigiata dalla mano di saggio artefice, starà distesa su le coltrici; ed io, prono  accanto a lei, la cingerò con queste braccia, invocando il nome tuo, pensando fra le braccia tener la mia diletta.
   Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso solleverà dell'anima. E nei sognim'apparirai, m'allieterai. Soave è la notte vedere i nostri cari quando che sia. Se le parole e il canto possedessi d'Orfeo, sí che, molcendo di Demètra la figlia e il suo signore, te dall'Averno riaddur potessi, vi scenderei; né di Plutone il cane  mi tratterrebbe, né Caronte, d'anime conduttor, pria che a luce io ti rendessi.
   Ora attendimi là, quando io sia morto, e prepara la casa ove dimora avrai con me. Ché porre io mi farò in questa istessa arca di cedro, il fianco vicino al fianco tuo; né, morto, mai sarò da te disgiunto, o sola fida! (...) / (Ro)



ALCESTI
   Figli, del padre le parole udiste: non sposerà, che sia vostra nemica, un'altra donna: a me non farà torto.

ADMÈTO:
   Lo affermo anche una volta; e manterrò.

ALCESTI
   E allor, dalla mia mano abbiti i figli.

ADMÈTO:
   Oh caro dono di mano diletta!

ALCESTI
   In vece mia, sii tu madre per essi.

ADMÈTO:
   Forza sarà, quand'io di te son privo.

ALCESTI
   Quando viver dovevo, o figli, parto.

Admèto:
   Che farò di te privo, o me infelice!

ALCESTI
   Chi muor dispare. Avrai medico il tempo.

ADMÈTO:
   Con te laggiú, con te laggiú mi reca! Tempo? Solo di seguirti.

ALCESTI
   Io basto, che per te volli morire.

ADMÈTO:
   Di quale sposa, o Dèmone, mi privi!

ALCÈSTI:
   Già pieno d'ombra l'occhio mio s'aggrava.
ADMÈTO:
   Morto anche io sono, se mi lasci, o sposa!

ALCESTI
   Dire ben puoi che nulla io sono piú.

ADMÈTO:
   Leva il tuo volto... non lasciare i figli!

ALCESTI
   Non io voglio lasciarli... Oh figli... Addio!

ADMÈTO:
   Guardali ancor, guardali ancora!

ALCESTI
   Muoio!

Admèto:
ADMÈTO:

   Che fai? Ci lasci?
(...)

PRIMO CORIFEO:   Spirò. Spenta d'Admèto è la consorte.

***
(Euripide, Alcesti)
(Ro): Traduzione da Euripide e versione di Romagnoli.
(Gp): Adattamento Scenico di Giovanni Pititto: Fabula Alcesti-PuntoSei-Uno.



FONTI




Parti!, popolo di Fère, come gli Eroi Antichi parti - fra mille perigli parti - per mortificare te, se Alcesti la Nera Porta varca.
Fortifica te, popolo di Fère; e avanza - avanza continua questo Viaggio all'interno dell'Alcesti relitta da Tempesta fra gli sprazzi dell'animo suo su di una spiaggia sparsi. Ricomponili.
Totem, un totem ne sia d'Amor Fortezza Carità rimodellane sulla mentale sabbia. Carità non le negare o fiero popolo cui a breve t'è negata la Regina. Nella Tempesta seguila. Nel muggìto del suolo di quel lago oscuro di profondo Abisso non lasciarla sola. Volgila almeno verso un raggio di Luce. (Gp)


In corso di pubblicazione in:
http://parzifalpurissimo.blogspot.com/ - a cura di Giovanni Pititto 
(E-mail: parzifal.purissimo@gmail.com 

INDICIZZAZIONE IN CORSO


 



Progetto LOSFELD:
Nello sfondo, sulla sponda di un Mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'Estremo Limite del Nulla: sull'orlo di quell'Abisso combatto la mia battaglia. (Ernst Jünger)


Ad una Naumachìa di barchette dorate affidiamo Ricordi.


"Godi se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l' ondata della vita: / qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquario. / Il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell'eterno grembo; / vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo. / [p.16] Un rovello è di qua dall’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva: / si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro./ Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ va, per te l’ho pregato, - ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…"
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia - In Limine, Mondadori, XV Ediz., 1962 [s.l.st.], pp. 14-16).

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domenica 14 agosto 2011

Εὐριπίδης - Euripides, Aλκηστις - Alkestis - Alceste - Alcestis - Alcesti. Fonti.


Εὐριπίδης


Aλκηστις
(a cura di Giovanni Pititto)



- Ἀπόλλων - Ὦ δώματ᾽ Ἀδμήτει᾽, ἐν οἷς ἔτλην ἐγὼ
θῆσσαν τράπεζαν αἰνέσαι θεός περ ὤν.
Ζεὺς γὰρ κατακτὰς παῖδα τὸν ἐμὸν αἴτιος
Ἀσκληπιόν, στέρνοισιν ἐμβαλὼν φλόγα:
οὗ δὴ χολωθεὶς τέκτονας Δίου πυρὸς (05)
 κτείνω Κύκλωπας: καί με θητεύειν πατὴρ
θνητῷ παρ᾽ ἀνδρὶ τῶνδ᾽ ἄποιν᾽ ἠνάγκασεν.
ἐλθὼν δὲ γαῖαν τήνδ᾽ ἐβουφόρβουν ξένῳ,
καὶ τόνδ᾽ ἔσῳζον οἶκον ἐς τόδ᾽ ἡμέρας.
ὁσίου γὰρ ἀνδρὸς ὅσιος ὢν ἐτύγχανον (10)
 παιδὸς Φέρητος, ὃν θανεῖν ἐρρυσάμην,
Μοίρας δολώσας: ᾔνεσαν δέ μοι θεαὶ
Ἄδμητον Ἅιδην τὸν παραυτίκ᾽ ἐκφυγεῖν,
ἄλλον διαλλάξαντα τοῖς κάτω νεκρόν.
πάντας δ᾽ ἐλέγξας καὶ διεξελθὼν φίλους, (15)
 [πατέρα γεραιάν θ᾽ ἥ σφ᾽ ἔτικτε μητέρα,]
οὐχ ηὗρε πλὴν γυναικὸς ὅστις ἤθελεν
θανὼν πρὸ κείνου μηκέτ᾽ εἰσορᾶν φάος:
ἣ νῦν κατ᾽ οἴκους ἐν χεροῖν βαστάζεται
ψυχορραγοῦσα: τῇδε γάρ σφ᾽ ἐν ἡμέρᾳ (20)
 θανεῖν πέπρωται καὶ μεταστῆναι βίου.
ἐγὼ δέ, μὴ μίασμά μ᾽ ἐν δόμοις κίχῃ,
λείπω μελάθρων τῶνδε φιλτάτην στέγην.
ἤδη δὲ τόνδε Θάνατον εἰσορῶ πέλας,
ἱερέα θανόντων, ὅς νιν εἰς Ἅιδου δόμους (25)
 μέλλει κατάξειν: συμμέτρως δ᾽ ἀφίκετο,
φρουρῶν τόδ᾽ ἦμαρ ᾧ θανεῖν αὐτὴν χρεών. (A)
(A) Testo greco da: Euripides. Euripides, with an English translation by David Kovacs. Cambridge. Harvard University Press. forthcoming.
The Annenberg CPB/Project provided support for entering this text. In: http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text;jsessionid=228C11EDE91B4BCA662932DEDDDA047B?doc=Perseus%3Atext%3A1999.01.0087%3Acard%3D1 )



Ich nahm ja Abschied. 

Abschied über Abschied. (1)   



Frederic Leighton,
Hercules Wrestling with Dear for the Body of Alcestis,
(1869-71),
Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, C.T.
The Ella Gallup and Mary Catlin Sumner Collection Fund.






Ich nahm ja Abschied. 
Abschied über Abschied. (1) 












Euripides, Aλκηστις. Christoph Willibald Gluck, 
Alkestis - Alceste - Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi.
Interpretazione di Jessye Norman. 


NOTE(2) Il video: Christoph Willibald Gluck,  Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi - Jessye Norman.  Fondamentale nella riforma gluckiana dell'Opera dopo l'Orfeo ed Euridice, venne presentata al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre 1767. - Jessye Norman sings: The wonderful long lines of Gluck, served by the wonderful breath, diction, and vocal tones of Norman in "Ah malgré moi" (act 2) and "Ah divinités implacables" (act 3) - (Chicago, 1990).
(Da
http://www.youtube.com/watch?v=AG-wMqtMb1g&feature=related / Caricato su Youtube da in data 25 luglio 2008. Si ringrazia).




APPARATI
(1) I versi: "Ich nahm ja Abschied.  Abschied über Abschied." sono di Rainer Maria Rilke, Alkestis.  
Εὐριπίδης - Euripides, Aλκηστις - Alkestis - Alceste - Alcestis - Alcesti. Fonti.



Apollodoro, III, 10, 4.
Callimaco, Inno ad Apollo, 47-54.
Euripide, Alcesti.
Fulgenzio, I, 27.
Igino, Fabula, 50.
Scoli a Euripide, Alcesti 2.






Euripide, Alcesti.
PERSONAGGI:

APOLLO
TÀNATO
Alcèsti
ANCELLA
Admèto
Eumèlo
ERCOLE
Fèrete
CORO di cittadini di Fère

La scena si svolge a Fère, in Tessaglia,
dinanzi alla reggia d'Admèto.

APOLLO (Esce dalla casa d'Admèto, si volge
a contemplarla, e parla tristemente):
   Addio, casa d'Admèto, in cui dovei
   piegarmi, io Nume, a servil mensa! Giove
   causa ne fu, che, il vampo della folgore
   vibrato in petto al mio figliuolo Asclepio,
   l'uccise. Ond'io, del divin fuoco i fabbri,
   i Ciclopi, a vendetta, sterminai;
   e, per punirmi, mi costrinse il padre
   a servire un mortale. E a questo suolo
   giunto, i bovi a un estranio pasturai,
   e la sua casa fino a questo dí
   protessi: ché in un uom pio m'imbattei,
   nel figliuol di Fèrete. Ora io da morte,
   deludendo le Parche, lo salvai.
   Mi concessero quelle che l'Averno
   schivar potesse Admèto, se in sua vece
   offrisse un altro agl'Inferi. Provò
   tutti gli amici, a tutti ebbe ricorso,
   e al padre e alla canuta madre; e niuno
   trovò, tranne la sposa, che sostenne
   per lui morire, e abbandonar la luce.
   Ella, portata a braccia, or ne la casa
   l'anima rende. Ché morire deve
   in questo giorno, e abbandonar la vita.
   Or la casa diletta io lasciar devo,
   perché me non contamini il contagio.
   Ché già Tànato veggo avvicinarsi,
   sacerdote dei morti, che la donna
   condurrà nell'Averno. Il dí spiava
   ch'ella morir dovesse; e in punto giunse.
Tànato (Appare improvviso. è un giovine avvolto
in un peplo nero: impugna una spada):
   Che fai su la soglia? Che giri
   qui attorno? Non operi, o Febo,
   secondo giustizia, che predi
   agl'Inferi i loro diritti!
   Assai non ti fu contrastare
   al fato d'Admèto, eludendo
   con arte di frode le Parche,
   che, armata la destra dell'arco,
   or giungi a soccorrer la sposa,
   la figlia di Pelio, che sé
   offriva alla morte, se salvo
   facesse lo sposo?
APOLLO:   Fa' cuor. Diritto ed argomenti adduco.
Tànato:
   E se diritto adduci, a che quell'arco?
APOLLO:
   L'arco portare sempre è mio costume.
Tànato:
   E questa casa a mal dritto proteggere.
APOLLO:
   Il male d'un amico al cuor m'è grave.
Tànato:
   Questa seconda salma anche vuoi togliermi?
APOLLO:
   Se neppur l'altra io ti sottrassi a forza!
Tànato:
   E come è su la terra, e non sotterra?
APOLLO:
   La sposa in cambio die', ch'ora tu cerchi.
Tànato:
   E l'addurrò nei regni della tenebra.
APOLLO:
   Prendila e va. Non so se t'indurrei...
Tànato:
   A uccider, sí, chi debbo. A questo venni.
APOLLO:
   Modo non c'è che vecchia Alcèsti muoia?
Tànato:
   Non c'è: d'onori anch'io debbo andar lieto.
APOLLO:
   Non piú che un'alma ad ogni modo avrai.
Tànato:
   Piú grande è l'onor mio, se muore un giovine.
APOLLO:
   Ricche esequie ella avrà, se morrà vecchia.
Tànato:
   Comoda legge per i ricchi, o Febo!
APOLLO:
   Io non sapevo che tu loico fossi.
Tànato:
   Non morrebber piú ricchi. Troppo comodo!
APOLLO:
   Questa grazia non vuoi dunque concedermi?
Tànato:
   Davvero no. Conosci i miei costumi.
APOLLO:
   Sí: nemici ai mortali, in odio ai Numi!
Tànato:
   Non avrai tutto ciò che aver non devi.
APOLLO:
   Ti piegherai, sebben duro sei tanto!
   Tal di Fère alla casa un uomo giunge.
   Euristèo lo mandò, che le cavalle
   dai ghiacci traci e il cocchio gli radduca.
   Ei, nei tetti d'Admèto ospite, a forza
   ti rapirà la donna; e non avrai
   grazia alcuna da me: dovrai piegarti;
   e l'odio mio guadagnerai per giunta.
Tànato:
   Nulla otterrai, per quanto a lungo parli:
   giú nell'Averno scenderà la donna.
   Ora muovo su lei: con la mia spada
   la tocco; e quanti il crine hanno sfiorato
   da questo ferro, sono sacri agl'Inferi.
(Apollo e Tànato escono, uno da una parte, uno dall'altra)
(Dalle due párodoi avanza il coro, composto di cittadini di Fère,
uomini, donne, giovani, vecchi. I due corifei cantano la strofe
e l'antistrofe. Altri, a volta a volta, prendono la parola)
UN CITTADINO:   Perché questa pace dinanzi alla reggia?
   è muta la casa d'Admèto. Perché?
   Né alcun degli amici qui scorgo, che dica
   se morta già debbasi piangere,
   se ancor vede luce la figlia di Pelio,
   Alcèsti, che a me,
   che a tutti, tal donna è sembrata
   che mai sulla terra la simil non visse.
PRIMO CORIFEO:                         Strofe prima
   Ode alcun nella reggia
   suono di mani, o gemito,
   od ululo che dia nuova funesta?
   Né alcun dei servi scorgesi
   presso alla porta. O Apolline,
   fulger tu possa in mezzo alla tempesta!
A:
   Non tacerebbero, se morta fosse!
B:
   Ella è già spenta!
C:
   No, non uscita è ancor dalla dimora.
D:
   Che ne sai? Non lo spero! E che t'incuora?
E:
   Celebrar forse a cosí santa sposa
   potrebbe Admèto esequie solitarie?
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe prima
   Non veggo su la soglia
   acqua di scaturigine,
   come pei morti. Ad onorar la salma
   non cadde ancor cesarie
   recisa innanzi all'atrio:
   picchiar non odo di femminea palma.
A:
   Eppure, il giorno fatale è questo!
B:
   Che mai, che dici?
A:
   In cui conviene che sotterra scenda.
B:
   Tocchi l'animo mio, tocchi il mio cuore!
C:
   Quando sui buoni piomba la sciagura,
   triste divien chi buono è per natura.
PRIMO CORIFEO:                         Strofe seconda
   Né su la terra è plaga,
   non la Licia, né l'arida
   dell'Ammonio dimora,
   a cui volger la prora
   alcuno possa, e l'anima
   della misera Alcèsti
   riscattar: ché su lei
   pesa l'ineluttabile
   Fato. Di quali Dei
   mover debba all'altare
   non so, né quali debba ostie sgozzare.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe seconda
   Solo se vivo ancora
   fosse il figliuol d'Apolline,
   essa lasciar dell'Ade
   le soglie, le contrade
   buie lasciare, e riedere
   potrebbe: ch'ei risorgere
   fea la gente defunta:
   sinché su lui del folgore
   divin la fiammea punta
   piombò. Ma che speranza
   che a vita ella ritorni, oggi m'avanza?
A:
   Già tutto a salvare la nostra regina
   tentammo. Dei Numi
   sovressi gli altari,
   di vittime sangue, di vittime fumi.
   Al male non v'è medicina.
(Dalla reggia esce un'ancella)
B:
   Veh! Dalla casa una fantesca giunge,
   versando pianto. Udir che mai dovrò?
   Se la sciagura i signor nostri coglie,
   versar lagrime è giusto. - Ora tu dicci
   se viva ancora o spenta è la regina.
ANCELLA:
   Puoi dirla viva, puoi già morta dirla.
PRIMO CORIFEO:
   Come può morto e vivo essere alcuno?
ANCELLA:
   Già presso è a morte, già lo spirto esala.
PRIMO CORIFEO:
   Di quale sposa, ahi, quale sposo è privo!
ANCELLA:
   Nol saprà, se perduta pria non l'abbia!
PRIMO CORIFEO:
   Piú non v'è speme di serbarla in vita?
ANCELLA:
   Il dí fatale a morte la costringe.
PRIMO CORIFEO:
   E l'esequie per lei già s'apparecchia?
ANCELLA:
   Pronti Admèto ha gli arredi a seppellirla.
PRIMO CORIFEO:
   Sappi, Alcèsti, che muor con te la donna
   miglior fra quante sotto il sole vivono.
ANCELLA:
   Come no? La migliore. E chi contendere
   potrà che questa ogni altra donna avanzi?
   Chi mai potrà l'amor pel suo consorte
   dimostrar meglio che per lui morendo?
   Ma questo a tutti i cittadini è noto.
   Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci.
   Poi che giungere vide il giorno estremo,
   volonterosa, pria le pure membra
   lavò nella corrente acqua; e dall'arche
   di cedro, vesti ed ornamenti trasse,
   e s'abbigliò compostamente. E stando
   presso all'ara di Vesta, la pregò:
   «Ora che ai regni sotterranei scendo,
   quest'ultima preghiera, o Dea, ti volgo.
   Proteggi i figli miei. Fida una sposa
   unisci a questo: un generoso sposo
   a questa. E non come io, lor madre, muoio,
   muoiano innanzi tempo i figli miei;
   ma nella patria vivano felici».
   E a quanti altari nella reggia sono,
   andò, li ghirlandò, pregò, scerpendo
   dalla chioma d'un mirto i ramicelli,
   senza pianto, né gemito: né il vago
   viso turbava l'imminente fine.
   Entrò quindi nel talamo, sul letto
   nuzïale; e qui pianse, e favellò.
   «Letto che avesti il fior della mia vita,
   addio: non t'odio io, no, sebbene muoio
   solo per te: per non tradir lo sposo
   e te, muoio. Sarai d'un'altra donna,
   non piú casta di me: piú fortunata».
   E su vi cade; e lo bacia; e d'un fiotto
   di lagrime la coltre è molle tutta.
   Or, poi che sazia fu del pianto lungo,
   si stacca dalle coltri, e s'allontana.
   Ma nell'uscir dal talamo, si volge
   piú volte; e sovra il letto ancor si gitta.
   Stretti alle vesti della madre, i figli
   piangeano. In braccio essa li prese: e già
   moribonda, baciava or l'uno or l'altra.
   Tutti i servi piangean nella dimora,
   per la pietà della regina. Ed essa
   tese a tutti la destra. E niuno v'era
   umil cosí, che a lui non favellasse,
   che a lei non rispondesse. Ecco che avviene
   nella casa d'Admèto. Oh, s'egli fosse
   morto, non piú sarebbe. Ma, scampato,
   tale è il suo duol, che non avrà mai fine.
PRIMO CORIFEO:
   Di sí nobile sposa andare privo!
   Certo, per questo male Admèto piange.
ANCELLA:
   Tien fra le braccia la diletta sposa,
   e piange, e prega perché non lo lasci.
   L'impossibile cerca! Ella si strugge
   nel suo male, si disfa, s'abbandona,
   triste peso, al suo braccio. E, benché poco
   respiri piú, del sole i raggi anela.
   Or vado ad annunciar la tua presenza:
   ché non tanto aman tutti i lor signori,
   che serbin fido cuor nelle sciagure;
   e tu sei dei padroni amico vecchio.
(L'ancella rientra nella reggia)
A:
   Giove, qual fine avranno i mali? Come
   allontanar dal capo del nostro re gli affanni?
B:
   Esce alcun già? Reciderò le chiome?
   Cingerò le mie membra col vel dei negri panni?
C:
   Già tutto è chiaro, amici. Pur tuttavia, preghiere
   leviamo ai Numi. Grande è dei Numi il potere!
PRIMO CORIFEO:                         Strofe terza
   Oh dio Peane,
   trova rimedio tu pei casi tristi
   d'Admèto, e a lui lo porgi. Un'altra volta
   già tu lo rinvenisti.
   Giungi anche adesso, giungi,
   frena Averno sanguineo,
   e la morte tien lungi.
A:
   Ahimè, ahimè! Che sposa a te s'invola,
   o figliuol di Fèrete! Ahi, sventura, sventura!
B:
   Stringere ei non dovrebbe alla sua gola
   laccio funesto, o spegnersi di morte anche piú dura?
C:
   La tua, cara non dico, carissima consorte,
   veder dovrai quest'oggi cader preda alla morte.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe terza
   Oh vedi, vedi!
   Esce già dalla reggia anche il signore.
   Ulula, piangi tu, suolo di Fère!
   Dal morbo la migliore
   delle donne consunta,
   per sotterraneo valico
   nel buio Averno è giunta.
A:
   Puoi tu dir che le nozze non rechino
   piú che gioia dolor, se argomenti
   dagli eventi trascorsi, e ai presenti
   volgi il guardo: al mio sire che, privo
   della sposa piú nobile, vivo
   pur vivendo, mai piú non sarà?
(Entra Admèto, sostenendo Alcèsti moribonda,
seguita dai figli che si appendono alle sue vesti.
Ancelle, servi, guardie)
Alcèsti:
   Sole, luce del giorno,
   ètere, limpide veloci nuvole!
Admèto:
   Te vede il sole e me, due sventurati.
   Nulla offendemmo i Numi: eppur tu muori.
Alcèsti:
   Terra, tetto dell'atrio,
   nuzïal talamo di Jolco mia!
Admèto:
   Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega
   gli Dei possenti ch'abbiano pietà.
Alcèsti:
   Vedo la cimba, vedo! Con la mano sul remo,
   Caronte, il navicchiere dei defunti, gia già
   mi chiama. «Non t'affretti? Che indugi? Tarderemo
   per te!» La sua parola piú veloce mi fa.
Admèto:
   Misero me! Di che partenza dura
   favelli! Qual su noi piombò sventura!
Alcèsti:
   Mi tragge alcun, mi tragge! Su me confitta è d'Ade
   la cerula pupilla fosca: trascina me
   dei morti all'aula. - Lasciami. Che mi fai? - Per che strade,
   o donna infelicissima, volgere debbo il pie'!
Admèto:
   Strade di pianto per gli amici, e piú
   per me, pei figli, che abbandoni in lutto.
Alcèsti:
   Lasciatemi, lasciatemi,
   adagiatemi. Piú
   non mi reggono i piedi.
   Morte è già presso:
   ombrosa notte sopra gli occhi repe.
   Figli, figli, la madre
   vostra non vive piú.
   Addio, figli, godete
   questa luce del giorno.
Admèto:
   Ahimè! Questi detti al mio cuore
   son piú che ogni morte funesti!
   Oh no, non partire, ti prego
   pei Numi, pei figli che tu
   lasci orfani! Sorgi, fa' cuore!
   Se muori, io morrò.
   Tu sola puoi darmi la vita o la morte.
Alcèsti:
   Admèto, a te che la mia sorte vedi,
   dirò, pria di morir, quello che bramo.
   Io piú che me, te caro avendo, a prezzo
   del viver mio, la luce a te serbata,
   muoio. E potevo non morir per te,
   ma chi volessi sposo aver dei Tèssali,
   e sovrana regnar ne la mia reggia.
   Ma divelta da te non volli vivere
   coi figli derelitti; e abbandonai
   di giovinezza i doni ond'io godevo.
   L'uom che te generò, la madre tua
   ti tradirono. Ed erano pur giunti
   agli anni in cui lasciar la vita è giusto;
   e bello era per lor salvare il figlio,
   glorïosa la morte; e avean te solo,
   né speranza d'avere altri figliuoli
   se tu morivi; ed io vissuto avrei
   sempre vicino a te; né tu soletto
   piangeresti la sposa, e i figli tuoi
   orfani educheresti. Ma un Dio volle
   che cosí fosse tutto questo. E sia.
   Ma tu, memore, rendimi una grazia.
   Al beneficio pari non sarà,
   ché nulla val quanto la vita vale;
   ma ben giusta: e tu stesso lo dirai:
   ch'ami non men di me questi fanciulli,
   se pure hai senno. Fa' ch'essi padroni
   sian della casa mia, schiva le nozze,
   ai figli miei non dare una matrigna,
   che, non avendo il cuore mio, per astio,
   sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano.
   Non farlo, no, ti prego. Ai primi figli
   sopraggiunge nemica una matrigna:
   cuore non ha piú mite d'una vipera.
   Il figlio maschio trova un baluardo
   nel padre suo; ma tu, pargola mia,
   chi curerà la tua giovine vita?
   come sarà con te la nuova sposa
   del padre tuo? Di mala fama, forse,
   nei floridi anni tuoi ti brutterà,
   sí che distrugga le tue nozze. Sposa
   te non farà la madre: ai parti, o figlia,
   te non assisterà, dove nessuno
   ha d'una madre il cuore! Io morir devo,
   e non domani, e non il terzo dí
   del mese, il mal m'attende; ma fra poco
   viva chiamar me non potrete. Addio,
   siate felici. Glorïarti, o sposo,
   potrai che la tua sposa ottima fu:
   e voi, figliuoli, della madre vostra.
PRIMO CORIFEO:
   Fa' cuor: per lui parlare non mi pèrito.
   Quanto brami farà, se non è folle.
Admèto:
   Sarà, tutto sarà. Non temere. Io
   t'ebbi sposa da viva; e morta, ancora
   unica sposa mia detta sarai.
   Niuna Tessala piú mi chiamerà
   sposo, e sia pur di nobil sangue, sia
   di vaghissime forme. Ai Numi, questo
   soltanto io chiedo: che mi sia concesso
   gioir dei figli, or che di te gioire
   piú non m'è dato. E non un anno il lutto
   tuo porterò; ma sin ch'io resti in vita,
   o sposa: e aborrirò la madre mia,
   il padre aborrirò. M'erano amici,
   non a fatti, a parole. Invece tu,
   la carissima vita in cambio offerta,
   salvato m'hai. Come potrei non piangere,
   perduta avendo una compagna tale?
   Porrò fine ai convivî, ed ai simposî,
   alle ghirlande, ai canti che sonavano
   nella mia casa. Piú non toccherò
   cetra, né piú solleverò lo spirito,
   cantando al suon di flauto libio. Tu
   della vita m'hai tolto ogni diletto.
   La tua figura effigïata dalla
   mano di saggio artefice, starà
   distesa su le coltrici; ed io, prono
   accanto a lei, la cingerò con queste
   braccia, invocando il nome tuo, pensando
   fra le braccia tener la mia diletta.
   Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso
   solleverà dell'anima. E nei sogni
   m'apparirai, m'allieterai. Soave
   è la notte vedere i nostri cari
   quando che sia. Se le parole e il canto
   possedessi d'Orfeo, sí che, molcendo
   di Demètra la figlia e il suo signore,
   te dall'Averno rïaddur potessi,
   vi scenderei; né di Plutone il cane
   mi tratterrebbe, né Caronte, d'anime
   conduttor, pria che a luce io ti rendessi.
   Ora attendimi là, quando io sia morto,
   e prepara la casa ove dimora
   avrai con me. Ché porre io mi farò
   in questa istessa arca di cedro, il fianco
   vicino al fianco tuo; né, morto, mai
   sarò da te disgiunto, o sola fida!
PRIMO CORIFEO:
   Il tuo duol per costei con te partecipo,
   amico per l'amico; essa n'è degna.
Alcèsti:
   Figli, del padre le parole udiste:
   non sposerà, che sia vostra nemica,
   un'altra donna: a me non farà torto.
Admèto:
   Lo affermo anche una volta; e manterrò.
Alcèsti:
   E allor, dalla mia mano abbiti i figli.
Admèto:
   Oh caro dono di mano diletta!
Alcèsti:
   In vece mia, sii tu madre per essi.
Admèto:
   Forza sarà, quand'io di te son privo.
Alcèsti:
   Quando viver dovevo, o figli, parto.
Admèto:
   Che farò di te privo, o me infelice!
Alcèsti:
   Chi muor dispare. Avrai medico il tempo.
Admèto:
   Con te laggiú, con te laggiú mi reca!
Alcèsti:
   Io basto, che per te volli morire.
Admèto:
   Di quale sposa, o Dèmone, mi privi!
Alcèsti:
   Già pieno d'ombra l'occhio mio s'aggrava.
Admèto:
   Morto anche io sono, se mi lasci, o sposa!
Alcèsti:
   Dire ben puoi che nulla io sono piú.
Admèto:
   Leva il tuo volto... non lasciare i figli!
Alcèsti:
   Non io voglio lasciarli... Oh figli... Addio!
Admèto:
   Guardali ancor, guardali ancora!
Alcèsti:
   Muoio!
Admèto:
   Che fai? Ci lasci?
Alcèsti:
   Addio!
Admèto:
   Morto son io!
PRIMO CORIFEO:
   Spirò. Spenta d'Admèto è la consorte.
Eumèlo:
   Oh mia sciagura! La madre è scesa
   sotterra, o padre! Non vede piú
   il sole; ed orfana
   la vita mia
   povera lascia.
   Vedi, le palpebre
   vedi, e le mani
   già rilasciate!
   Odimi, odimi, ti prego, o madre!
   Io sono, o madre,
   sono il tuo pargolo,
   io che ti bacio,
   io che ti chiamo!
Admèto:
   Chiami chi piú non ode e piú non vede.
   Dura sciagura me con voi percuote.
Eumèlo:
   Pargolo io sono, padre; e me solo
   con la sorella la madre lascia.
   Me sventurato,
   te sventurato!
   Invano, invano
   per te le nozze
   furono: al limite
   della vecchiezza
   con la tua sposa non giungi. Morte
   prima la prese.
   Tutta in rovina,
   poi che tu parti,
   madre, è la casa!
PRIMO CORIFEO:
   Sopportar la sciagura, Admèto, è forza.
   Non il primo fra gli uomini, né l'ultimo
   sarai, che perda una consorte egregia.
   Pensa che tutti siamo sacri a morte.
Admèto:
   Lo so. Né sopra me questa sciagura
   batte l'ali improvvisa. E ben, saperlo,
   già da gran tempo mi crucciava. Or via,
   l'esequie adesso celebrar conviene.
   Voi qui restate. E il lugubre peana
   s'intoni alterno al Dio d'Averno immite.
   Ed ai Tessali tutti onde ho l'impero,
   pubblico lutto per Alcèsti impongo:
   recidere le chiome, e negre vesti.
   Ed ai cavalli che aggiogate ai cocchi,
   ed ai corsieri, sian recisi i crini.
   Né piú clamor di flauti né di lire,
   pria di dodici mesi, in Fère s'oda.
   Ché mai seppellirò morto piú caro
   di questo, e a me piú amico. Ed onorarlo
   deggio io, poi che per me morte sostenne.
(Admèto si allontana)

PEANA FUNEBRE
PRIMO CORIFEO:                         Strofe
   O figlia di Pèlio,
   ti siano gradita dimora le tènebre inferne.
   E sappia Ade, il Nume che negre ha le chiome,
   e il vecchio che i morti conduce,
   al remo seduto e al timone,
   che mai d'Acherónte
   sovressa la morta palude,
   mai donna piú degna
   recò sul bireme battello.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe
   Te molto i poeti
   diran su l'alpestre settemplice lira, con gl'inni,
   diran senza lira, nei giorni che riede
   a Sparta la vece del mese
   carnèo, fulgendo alta la luna
   per tutta la notte,
   e nella felice, fulgente
   Atene: tal mèsse
   di canti lasciasti ai poeti.
PRIMO CORIFEO:
   Potessi io dal soggiorno
   d'Averno, il sotterraneo
   fiume solcando, al giorno
   te ricondurre, Alcèsti!
   Ché tu cara, tu unica
   fra le donne, valesti,
   te sacrando alla morte,
   salvare dalle tènebre
   dell'Ade il tuo consorte.
   Cada la terra sopra te leggera!
   Ché se novello talamo
   Admèto mai salisse, ai figli tuoi
   segno d'odio sarebbe, e a tutti noi.
SECONDO CORIFEO:
   La madre e il padre stanco
   sotto la terra ascondere
   non sostennero il fianco,
   per evitar la fine
   precoce al figlio misero:
   e bianco aveano il crine.
   Ma tu, nella fiorita
   gioventú, pel tuo caro
   abbandoni la vita.
   Oh!, se a me pure concedesse il Fato
   tale una sposa! Il termine
   breve è di vita: deh!, potessi gli anni
   miei presso a lei varcar, scevro d'affanni!
(Mentre suonano le ultime note del peana,
sulla scena irrompe improvviso Ercole)
ERCOLE:
   Ospiti, che dimora avete in questa
   terra di Fère, trovo in casa Admèto?
PRIMO CORIFEO:
   Ercole! In casa è di Feréte il figlio.
   Ma, di': qual causa ti sospinse al suolo
   della Tessaglia, alla città di Fère?
ERCOLE:
   Compier per Euristèo debbo un impresa.
PRIMO CORIFEO:
   E dove? quale strada è a te prescritta?
ERCOLE:
   Del tracio Dïomède il cocchio io cerco.
PRIMO CORIFEO:
   Come l'avrai? Non sai chi è quel barbaro?
ERCOLE:
   No! Dei Bistonî al suolo io mai non giunsi.
PRIMO CORIFEO:
   Quei corsier, senza lotta aver non puoi.
ERCOLE:
   Mio costume non è fuggir fatica!
PRIMO CORIFEO:
   Tornerai se l'uccidi; o laggiú resti.
ERCOLE:
   Non è già questa la mia prima impresa.
PRIMO CORIFEO:
   E se uccidi il signor, poi che farai?
ERCOLE:
   Reco i corsieri, di Tirinto al re.
PRIMO CORIFEO:
   Por morso a quelle fauci non è facile.
ERCOLE:
   Spirano forse dalle nari fiamme?
PRIMO CORIFEO:
   Con voraci mascelle sbranan gli uomini.
ERCOLE:
   Belve alpestri son dunque, e non cavalli!
PRIMO CORIFEO:
   Vedrai di sangue infusi i lor presepî.
ERCOLE:
   E l'uom che li allevò, qual padre vanta?
PRIMO CORIFEO:
   Marte. Dei Traci clipei d'oro è re.
ERCOLE:
   Il travaglio che dici, è quale il Dèmone
   li serba a me: duro, a meta ardua volto,
   se coi figli di Marte appiccar zuffa
   io devo sempre. Con Licóne prima,
   poscia con Cigno; e in questo terzo agone,
   tali cavalli e tal signore affronto.
   Ma nessuno vedrà che tremi il figlio
   d'Alcmèna pel valor dei suoi nemici.
PRIMO CORIFEO:
   Ercole, vedi! Il re di questa terra,
   Admèto, dalla sua reggia s'avanza.
(Entra Admèto)
Admèto:
   Stirpe di Giove e di Persèo, salute!
ERCOLE:
   E a te salute, o Admèto, o re dei Tèssali!
Admèto:
   Salute avessi, come tu me l'auguri!
ERCOLE:
   Che avvenne? A che le chiome hai rase a lutto?
Admèto:
   Quest'oggi seppellir devo un defunto.
ERCOLE:
   Il mal dai figli tuoi distolga un Nume!
Admèto:
   Vivi son nella casa i figli miei.
ERCOLE:
   Se morto è il padre, a morte era maturo.
Admèto:
   Anch'egli è vivo, e lei che a luce diemmi.
ERCOLE:
   Morta non è la tua consorte, Alcèsti?
Admèto:
   Dare debbo per lei risposta ambigua.
ERCOLE:
   D'una morta favelli? o vive ancora?
Admèto:
   Vive e non vive: ed il mio cuore angoscia.
ERCOLE:
   Non ne so piú di prima. Oscuro parli.
Admèto:
   Non sai quale destino su lei pesa?
ERCOLE:
   Sí. Che morire elesse in vece tua.
Admèto:
   E se tanto accettò, puoi dirla viva?
ERCOLE:
   Ah! Non piangerla avanti! Attendi l'ora.
Admèto:
   Morto è chi morir dee. Chi morí, sparve.
ERCOLE:
   Non è dover morire esser già morto.
Admèto:
   Tu cosí pensi; ed io penso altrimenti.
ERCOLE:
   Chi piangi, via? Qual dei tuoi cari è morto?
Admèto:
   Una donna: una donna, or or t'ho detto.
ERCOLE:
   Stranïera, o di stirpe a te congiunta?
Admèto:
   Stranïera: e al mio tetto era pur utile.
ERCOLE:
   E come in casa tua finí la vita?
Admèto:
   Mortole il padre, fu cresciuta qui.
ERCOLE:
   Ahimè!
   Trovato non t'avessi, Admèto, in duolo!
Admèto:
   Perché dici cosí? Che mai disegni?
ERCOLE:
   D'altri ospiti alla mensa andare io penso.
Admèto:
   Mai non sarà. Tal male, oh, non avvenga!
ERCOLE:
   A chi soffre, molesto giunge l'ospite.
Admèto:
   I morti sono morti. Entra, su via.
ERCOLE:
   Turpe è il banchetto, se gli amici piangono.
Admèto:
   Appartata è la stanza ov'io ti reco.
ERCOLE:
   Lasciami andare; e grato ti sarò.
Admèto:
   D'altr'uomo a mensa non andrai. Precedimi.
   Le camere remote apri degli ospiti,
   ed ai ministri di' che t'apparecchino
   quello che brami.
   (Ercole entra. Ai servi)
   E sian chiuse le porte
   di mezzo. Chi banchetta, udire gemiti
   non deve. Né attristar bisogna gli ospiti.
PRIMO CORIFEO:
   Che fai? Su te grava tal male, o Admèto,
   e hai cuor d'accogliere ospiti? Sei folle?
Admèto:
   Se dalla casa via, se dalle mura
   respinto avessi l'ospite, m'avresti
   data lode? Minor, se inospitale
   fossi, sarebbe la sciagura mia?
   S'aggiungerebbe ai mali un mal, se detto
   fosse il mio tetto inospital. Costui,
   quando alla terra sitibonda giungo
   d'Argo, il miglior degli ospiti è per me.
PRIMO CORIFEO:
   E perché mai celasti la tua sorte
   all'uom, che, come dici, amico t'è?
Admèto:
   Se conosciuto il mio dolore avesse,
   la mia soglia varcata ei non avrebbe.
   Forse anche a lui, cosí facendo, folle
   sembrerò; lode non ne avrò; ma il tetto
   mio non sa né scacciar né spregiare ospiti.
(Esce)
PRIMO CORIFEO:                         Strofe prima
   O casa d'un uom generoso, che a tutti dischiusa ognor sei,
   Apòlline pizio, signor dell'armonica lira,
   in te dimorare
   degnavasi, in te pasturare
   le greggi sui tramiti
   alpestri sostenne,
   guidando gli armenti col sufolo
   d'agresti imenei.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe prima
   E insieme, pel gaudio del canto, le linci macchiate pascevano,
   lasciate le valli de l'Otro, venian dei leoni
   le fulve coorti;
   e al suon di tua cetera, o Febo,
   il versicolore
   cerbiatto danzava,
   lanciandosi, ebbro dei cantici,
   sovressi gli abeti.
PRIMO CORIFEO:                         Strofe seconda
   Però ne la sede ferace
   di greggi, vicino a le belle
   Bebíadi fluenti, dimora,
   e il ciel dei Molossi gli segna il confine,
   nei piani ove a notte i corsieri riposan del sole,
   e stende l'imperio su Egóna marina,
   e sovra l'inospite spiaggia del Pelio.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe seconda
   Ed ora, dischiusa la casa,
   con oochio di lagrime, l'ospite
   accoglie, piangendo la sposa
   or ora defunta. Ché i nobili cuori
   trattiene pudore. E s'accoglie fior d'ogni saggezza
   nei buoni. Fiducia nel cuore mi siede
   che prosperi eventi succedano al sire.
(Dalla reggia esce il corteo funebre
che reca Alcèsti al sepolcro)
Admèto:
   Cittadini di Fère, amici miei,
   la morta spoglia recano i ministri
   già nei funebri arredi, al rogo eccelso
   ed al sepolcro. La defunta or voi,
   com'è costume, salutate, mentre
   lascia la casa pel viaggio eterno.
PRIMO CORIFEO:
   Tuo padre vedo, che l'antico piede
   muove; e seco ha ministri, che ad Alcèsti
   gli estremi doni dei defunti recano.
Fèrete (Entra, seguito da servi che recano vesti, vasi, collane
ed altri doni funebri):
   Figlio, son qui. Pel cruccio tuo mi cruccio.
   Una buona consorte, una consorte
   saggia hai perduta. Chi lo nega? Eppure
   convien piegarsi al Fato, anche se grave.
   Per lei gradisci questi doni. Ed ella
   sotterra scenda. Onore abbia la salma
   di lei, che die' la sua per la tua vita;
   e non permise ch'io privo dei figli
   restassi, e senza te mi consumassi
   in dogliosa vecchiezza; e con quest'atto,
   nobile tutta la femminea stirpe
   e illustre ha reso. - O tu, che salvo il figlio
   hai fatto, noi cadenti hai sollevati,
   salve! Prospera sorte anche in Averno
   t'arrida. Oh!, tali spose sceglier gli uomini
   dovrebbero; o non mai stringere nozze.
Admèto:
   Invito io non ti feci a queste esequie,
   né so dir grata la presenza tua.
   Dei doni tuoi costei non s'ornerà:
   senza nulla di tuo sarà sepolta.
   Quando presso alla morte ero, dovevi
   crucciarti del mio cruccio. Allor, da parte
   rimanesti, lasciasti che per me
   morisse un altro, un giovine, tu vecchio.
   Ed or su questa morta versi lagrime?
   No, padre mio non sei, quella che chiamano
   mia madre, a luce non mi die'. D'un servo
   io sono sangue, e al sen della tua donna,
   di sotterfugio avvicinato fui.
   Arrivato al cimento, hai ben mostrato
   chi sei: d'essere tuo sangue non credo.
   Pusillanime sei come niun altri,
   che, cosí grave d'anni, giunto al termine
   della vita, morir pel figlio tuo
   né volesti, né ardisti. E a morte andò
   questa donna stranïera, che a buon dritto
   io crederò mia sola madre e padre.
   Eppure, egregia prova era per te
   morir pel figlio tuo, quando a ogni modo
   sol breve tempo a te di vita resta.
   E con Alcèsti ancor vissuto avrei,
   né solo piangerei le mie sciagure.
   Quanto uom beato può godere, tutto
   goduto hai tu. La gioventú passasti
   regnando: avevi me, tuo figlio, erede
   della tua casa; né, morendo, i beni
   lasciati avresti alla rapina altrui:
   né dir potrai che a morte mi lasciasti,
   perché negassi a tue canizie onore:
   ché reverente io sempre fui. Per questo
   tale mercè mia madre e tu mi date.
   Ma or, t'affretta a procreare figli,
   che curin gli anni tuoi tardi, che morto
   ornino te, che la tua salma espongano:
   mai questa mano ti seppellirà:
   ché, per tua parte, io sarei morto. Or, s'io,
   grazie ad un altro, ancor la luce veggo,
   di quello figlio mi dirò, di quello
   curerò la vecchiaia. I vecchi fingono
   quando invocan la morte, e gli anni tardi
   biasimano, e che troppa sia la vita.
   Se morte appressa, niuno vuol morire
   piú: né piú grave la vecchiezza sembra.
PRIMO CORIFEO:
   Basta! Già troppa è la sciagura vostra!
   Non irritar l'alma del padre, o figlio!
Fèrete:
   Figlio, che tracotanza è la tua? Sono
   un Lidio, un Frigio schiavo tuo, da battere
   di contumelie? Non sai tu che tessalo
   sono io, di padre tessalo, legittimo,
   libero? Troppo m'offendesti; e i detti
   fanciulleschi che tu contro me scagli,
   non andranno impuniti. Io di mie case
   signor t'ho generato, e t'ho nutrito;
   ma debito non è che per te muoia.
   Legge patria non è, non legge ellèna,
   che la vita pel figlio il padre dia.
   O prospera o infelice, è tua la vita
   tua. Quel che aver da me devi, tu l'hai:
   di molte genti sei signore, molti
   campi e vasti io ti lascio, che dal padre
   ebbi in retaggio. In che ti feci torto?
   Di che ti privo? Non dar la tua vita
   per me, né io la mia per te. La luce
   t'è cara. Pensi che al tuo padre cara
   non sia? Della mia vita, certo, poco
   mi resta; e il poco è pur dolce: ben lunghi
   giorni sotterra passerò: ma tu,
   tu combattesti svergognatamente,
   per non morire; e vivi; e sei sfuggito
   al tuo destino, e uccisa hai la tua sposa.
   E poi la viltà mia biasimi, o tristo
   fra i tristi, tu confuso da una femmina,
   che s'uccise per te, bel giovinetto!
   Ingegnosa trovata, ad evitare
   sempre la morte, se saprai convincere
   sempre a morir per te qualsiasi sposa
   tu abbia. E tu, sí vile, anche vituperi
   i cari tuoi, che a ciò non son disposti?
   Taci. Sappi che se la vita è cara
   a te, è cara a tutti. E se m'offendi,
   altre offese udrai: molte, e meritate.
PRIMO CORIFEO:
   Troppe le offese sue, troppe le tue.
   Taci, non oltraggiar tuo figlio, o vecchio.
Admèto:
   Dille, e risponderò. Se udire il vero
   ti cruccia, errar contro me non dovevi.
Fèrete:
   Piú errato avrei, se per te morto fossi.
Admèto:
   Ugual cosa è morire un vecchio e un giovine?
Fèrete:
   Una sol vita abbiamo, e non un paio!
Admèto:
   Lunga tu possa piú che Giove averla!
Fèrete:
   Nessun torto hai sofferto, e imprechi al padre?
Admèto:
   Perché di viver molto sei troppo avido.
Fèrete:
   E tu, non mandi in vece tua la sposa?
Admèto:
   Grazie alla tua viltà, tristo fra i tristi.
Fèrete:
   Dirai che morta sia per salvar me?
Admèto:
   Ahimè!
   Possa un giorno aver tu di me bisogno!
Fèrete:
   Sposane molte, tu, spacciane molte.
Admèto:
   Vergogna tua, che morir non volesti.
Fèrete:
   Caro è il fulgor di questo cielo, caro!
Admèto:
   Vile è l'animo tuo: non è virile.
Fèrete:
   Non riderai nel dar sepolcro al vecchio.
Admèto:
   Senza gloria morrai, quando morrai.
Fèrete:
   Che mi fa, dopo morte, mala voce?
Admèto:
   Ahi ahi! Vecchiaia spudorata troppo!
Fèrete:
   Spudorata costei non fu: fu pazza.
Admèto:
   Vattene! lascia ch'io la seppellisca!
Fèrete:
   Seppelliscila, dopo averla uccisa.
   Vado! Ma tu render dovrai ragione
   ai suoi congiunti. O Adrasto piú non vive,
   o la sorella a vendicar verrà.
Admèto:
   Alla malora, tu e la donna ch'abita
   con te. Senza figliuoli invecchierete,
   pur vivo essendo il figlio vostro. Tanto
   meritate. Né piú la stessa casa
   ci accoglierà. Se rinunciar potessi
   col bando d'un araldo al tetto avito,
   rinuncerei! - Su via, poi che bisogna
   chinarsi al mal presente, or noi moviamo:
   sopra il rogo poniamo il corpo estinto.
(Il Coro si avvia lentamente, cantando, col corteo funebre)
CORO:
   Ahimè, ahimè! Che cuore fu il tuo, misera!
   Oh generosa, oh nobile,
   salve! Benigno Ermète sotterraneo
   te accolga, e l'Ade. E se la nobile opera
   anche lí si remunera,
   sendone tu partecipe,
   sedere possa a lato di Persèfone.
(Da una porta secondaria della reggia esce un servo,
tutto pieno d'indignazione e di cruccio)
SERVO:
   N'ho visti molti, forestieri, e d'ogni
   parte del mondo, giungere alla reggia
   d'Admèto, e il pranzo gli ammannii. Ma uno
   piú tanghero di questo, non ci ha messo
   mai piede. Prima, trova il mio padrone
   in lutto, ed entra, senza farsi scrupolo
   di varcar questa soglia. Poi, saputa
   tanta disgrazia, non ha mica accolta
   con discrezione l'ospitalità!
   Ci scordavamo qualche cosa? E lui
   tempestava, per farsela portare.
   E messa mano ad una coppa d'ellera,
   dàlli a trincare puro sugo d'uva,
   sin che il fuoco del vino, serpeggiandogli
   nelle vene, lo accese. E, cinto il capo
   con rami di mortella, abbaia e abbaia
   fuori di tòno. C'erano due musiche:
   quello berciava, senza darsi il menomo
   pensier d'Admèto, e dei suoi guai: noi servi
   piangevam la signora; ma le lagrime
   nascondevamo all'ospite: ché Admèto
   ce l'aveva ordinato. - E adesso, io
   devo servirlo a tavola, quest'ospite,
   questo birbone, questo ladro, questo
   brigante! E intanto, la padrona mia
   la portan via di casa, ed io non l'ho
   seguita, verso lei non ho potuto
   tender la mano, sfogarmi a singhiozzi,
   lei che per me, che per i servi tutti,
   era una madre, che ci risparmiava
   mille castighi, mitigando l'ira
   dello sposo. Ho ragione o no, se odio
   lo stranier che piombò fra i nostri guai?
(Dalla stessa porta esce Ercole, ubriaco, con una coppa
in mano ed una corona in testa)
ERCOLE:
   Perché stai lí cogitabondo e scuro,
   amico? Un servo non ha già da fare
   quel muso lungo agli ospiti, ma accoglierli
   con garbo e grazia. Tu, vedi l'amico
   in casa del padrone, e lo ricevi
   accipigliato, con un viso d'uggia!
   Sentimi qui, che metterai giudizio.
   Lo sai qual è la sorte dei mortali?
   Credo di no. Chi può avertelo detto?
   Debbon morire tutti quanti gli uomini;
   né tra i mortali alcuno v'è che sappia
   se dimani vivrà: ché oscuro è l'esito
   della ventura; e non s'impara; ed arte
   non te l'insegna. Adesso che sai tanto,
   che l'impari da me, datti alla gioia,
   trinca, pensa che il giorno che tu vivi
   è tuo, della Fortuna è il resto. E onora
   Cípride, delle Dee la piú soave,
   la piú benigna pei mortali. E l'altre
   malinconie, lasciale stare, e dammi
   retta, se non ti par ch'io dica male.
   A me, pare di no. Dunque, non startela
   a pigliar troppo, cingi una corona,
   varca la soglia, e bevi insiem con me:
   e ti so dir che il tintinnio del calice
   farà mutare subito di rotta
   a quella grinta amara, e all'umor negro.
   Chi è mortale, ha da pensare da
   mortale; e per la gente ammusonita
   sempre e accigliata, credi pure a me,
   la vita non è vita: è un'agonia.
SERVO:
   Tutto questo lo so; ma non passiamo
   un momento da risa e da bagordi.
ERCOLE:
   è morta una stranïera: non pigliartela
   troppo: i signori della casa vivono.
SERVO:
   Vivono? Non sai dunque i nostri mali?
ERCOLE:
   Vivono! o il tuo signor mentito m'ha!
SERVO:
   Troppo amico è il mio re, troppo, degli ospiti!
ERCOLE:
   Dovea, per lutto estraneo, male accogliermi?
SERVO:
   Davvero estraneo, sí: troppo era estraneo!
ERCOLE:
   Forse mi tacque alcuna sua sciagura?
SERVO:
   Va' in pace: noi del re piangiamo i mali.
ERCOLE:
   Non parli no, come d'estraneo lutto!
SERVO:
   Crucciato mi sarei del tuo bagordo?
ERCOLE:
   Che? M'ha l'ospite mio tratto in inganno?
SERVO:
   Non giungi in punto da ricevere ospiti!
ERCOLE:
   Morto è dei figli alcuno? O il vecchio padre?
SERVO:
   D'Admèto, ospite, spenta è la consorte!
ERCOLE:
   Che dici? E in casa pur m'avete accolto?
SERVO:
   Troppo si peritava di respingerti.
ERCOLE:
   Di quale sposa orbato fosti, o misero!
SERVO:
   Tutti perduti siam, non solo Alcèsti.
ERCOLE:
   Ben sentito l'avea, vedendo il pianto
   scorrere, e il volto, e il capo raso. Ma
   mi convinse, dicendo che un estraneo
   alla tomba recava. E, a mal mio grado,
   questa soglia varcata, entrato in casa
   dell'amico ospitale, immerso in tanta
   calamità, sto qui gozzovigliando.
   E un serto cinge il capo mio! - Ma tu,
   perché tacere, quando sulla casa
   tanta sciagura era piombata? Dove
   la seppellí? Dove potrei trovarla?
SERVO:
   Per la via dritta che a Larissa mena,
   vedrai la bianca tomba, oltre il pomerio.
ERCOLE:
   Cuor mio, temprato a mille prove, or mostra
   qual figlio a Giove diede Alcmèna. Io devo
   salvar la donna or ora spenta, Alcèsti,
   e a questa casa ricondurla, e all'ospite
   degna mercede ricambiare. Andrò,
   affronterò dei morti il sire, Tànato
   dal negro peplo. Vicino alla tomba,
   certo, a suggere il sangue delle vittime,
   lo troverò. Lo apposterò. Né s'io,
   balzando dall'agguato, potrò cingerlo
   nel cerchio delle mie mani, sarà
   chi svellar possa dalla stretta l'ansimo
   del fianco suo, se Alcèsti non mi rende.
   Che se mai questo agguato mi fallisce,
   né venga alla sanguigna epula, giú
   nella dimora senza sol di Cora,
   discenderò, la chiederò. Sicuro
   sono, di ricondurre al mondo Alcèsti,
   e consegnarla nelle man dell'ospite
   che non mi rimandò, ma in mezzo a tanta
   sciagura, in casa sua mi diede albergo,
   e la nascose, nobil cuore, ed ebbe
   riverenza di me. Chi mai, fra i Tèssali,
   piú ospitale di lui? Chi nelle terre
   d'èllade tutta? Ora ei, sí generoso,
   non dirà che fu largo ad un ingrato.
(Esce di furia. Il servo si ritira)
(Scena come nel principio. Torna Admèto,
seguito dai cittadini che formano il coro)
Admèto:
   Ahimè!
   Ritorno odïoso,
   aspetto odïoso dei tetti deserti!
   Ahimè ahimè, ahi, ahi!
   Dove andrò? Dove starò?
   Che devo dire? Che favellerò?
   Deh! morte mi colga!
   A trista ventura mi nacque mia madre:
   invidio gli estinti, di loro ho vaghezza:
   ché i raggi del sole mirare non godo,
   né muovere i piedi sovressa la terra:
   tal pegno mi tolse, per darlo all'Averno,
   il Nume di morte.
PRIMO CORIFEO:
   Avanza, avanza, alla tua casa in seno!
Admèto:
   Ahimè!
PRIMO CORIFEO:
   Degna di pianto è la sciagura tua!
Admèto:
   Ahi, ahi!
PRIMO CORIFEO:
   T'opprime il duolo,
   bene lo so!
Admèto:
   Ahimè, ahimè!
PRIMO CORIFEO:
   Ma nulla a lei ch'è in buia terra, giova.
Admèto:
   Misero me, misero me!
PRIMO CORIFEO:
   Mai piú vedere della tua consorte
   il carissimo viso! Oh amara sorte!
Admèto:
   La doglia rammemori che il cuore mi piaga:
   qual male peggiore per l'uomo, che perdere
   la fida compagna? Deh!, mai questo tetto
   accolto m'avesse, con simile sposa!
   Invidio chi sposa, chi figli non ha.
   Abbiamo una vita, dolersi per questa
   è pena mediocre; ma i morbi dei figli, ma il talamo
   di nozze, soffrire
   da morte deserto, perché,
   se pur senza sposa né figli, si vive?
PRIMO CORIFEO:
   T'opprime il Fato, il Fato ineluttabile.
Admèto:
   Ahimè!
PRIMO CORIFEO:
   Nessun confine alla tua doglia poni!
Admèto:
   Ahi!
PRIMO CORIFEO:
   Duro è patirla;
   ma pur bisogna.
Admèto:
   Ahimè, ahimè!
PRIMO CORIFEO:
   Tòllera: il primo tu non sei che perda...
Admèto:
   Misero me, misero me!
PRIMO CORIFEO:
   la sposa. Sovra i miseri mortali
   sciagura piomba con diversi mali.
Admèto:
   O lunghi dolori, tormenti pei cari
   che sceser sotterra!
   Perché proibiste che giú nella tomba
   mi precipitassi, che spento giacessi
   vicino alla donna mia cara?
   Avrebbe l'Averno, non uno
   ma due fidi spiriti visti
   insieme varcare la buia palude.
PRIMO CORIFEO:                         Strofe
   Io m'ebbi un parente
   a cui nella casa si spense,
   ben degno di lagrime, l'unico figlio.
   E pur, benché orbo di prole,
   benché già vicino a canizie,
   già oltre con gli anni,
   sostenne con forza il suo male.
Admèto:
   Deh!, come abitar la mia casa,
   come entrarvi potrò, poi che tanto
   mutò la mia sorte? Oh, me misero!
   Un dí tra le fiaccole pelie
   v'entrai, fra clamor d'imenei,
   tenendo per mano la sposa
   diletta; e il sonoro corteo
   seguía, me felice dicendo,
   felice la sposa defunta:
   ché nobili entrambi, di nobile
   progenie, ci fossimo uniti.
   Ma grido suona or ben diverso
   dai canti di nozze; ma invece
   di candidi pepli, le fosche gramaglie
   m'adducono al talamo vuoto.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe
   In prospera sorte
   su te, non esperto del duolo,
   il duolo piombò. Ma la vita, ma l'alma
   salvasti. Morí la tua sposa,
   perdé l'amor tuo. Cosa nuova
   ti sembra? La morte
   a molti rapí la consorte!
Admèto:
   Amici, il fato della sposa giudico
   piú felice del mio, sebben non pare.
   Ché niun dolore lei piú toccherà,
   e glorïoso fin pose alle ambasce.
   Ma io, che viver non dovea, schivata
   la sorte, condurrò misera vita:
   ora lo intendo. Come in casa io posso
   entrare? A chi rivolgerò parole,
   da chi parole udrò, sí che l'ingresso
   mi sia giocondo? Ove mi volgerò?
   Via mi scaccia di qui la solitudine,
   or che deserte della sposa vedo
   le stanze, e il trono ove sedeva, e squallido
   il suolo, e i figli alle ginocchie mie
   caduti, piangan la lor madre, i servi
   piangan perduta la signora loro.
   Questo mi aspetta entro la casa. E fuori,
   dalle tessale nozze cruccio avrò,
   e dai convegni femminili. Come
   sopporterò la vista delle donne
   negli anni uguali alla mia sposa? E quanti
   mi son nemici, diranno cosí:
   «Vedi chi vive lunga vita, chi
   morire non ardí, ma, dando in cambio
   la sua consorte, per viltà schivò
   l'Averno. D'essere uomo forse ei reputa?
   E aborre i genitori, ei che non seppe
   morire!» - Questa mala fama avrò
   tra i maligni. E che piú mi giova, amici,
   vivere in mala sorte, in mala fama?
(Rimane in atto di profonda angoscia)
PRIMO CORIFEO:                         Strofe prima
   Spesso fui con le Muse, spesso
   sursi a volo d'idee sublimi;
   ma, per quanto cercassi, nulla
   vidi mai che piú forza avesse
   della Sorte; né alcun rimedio
   ritrovai ne le tracie tavole,
   negl'incanti d'Orfeo vocale,
   né tra l'erbe che Febo colse, che, blandí farmachi
   per le misere genti, porse d'Asclepio al figlio.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe prima
   Ma non ara, né sculta effigie
   cui tu supplice giunga, questa
   Dea possiede: non cura vittime.
   Non gravare su la mia vita
   piú di quanto finor gravasti:
   ché sin quanto disegna Giove,
   o Divina, per te si compie.
   Tu fra i Càlibi domi il ferro con la tua possa;
   né si piega, né il tuo volere pietà conosce.
PRIMO CORIFEO:                         Strofe seconda
   Ed or nei vincoli non estricabili delle sue mani, te questa Diva
   strinse. Fa' cuore. Non con le lagrime potrai dagl'Inferi
   tornare a luce la morta gente. Sinanche i figli degl'Immortali
   scendon di morte nel buio regno.
   Era diletta la tua consorte
   fra i vivi: spenta, diletta è ancora:
   tu la piú nobile fra quante donne
   vivono, avesti compagna al talamo.
SECONDO CORIFEO:                       Antistrofe seconda
   Né riguardata sarà la tomba della tua sí come il tumulo
   di chi morendo scompare. Onori simili ai Numi
   avrà: per quanti transiteranno, sarà motivo di riverenza.
   E alcun, distoltosi dal suo cammino,
   per ricercarla, dirà: «Costei
   per il suo sposo diede la vita.
   Ora è fra i Numi! Salute! E siine
   propizia!» Tale sarà sua fama.
CORIFEO:
   Se non m'inganno, Admèto, alla tua casa
   rivolge il pie' d'Alcmèna il prode figlio.
(Entra Ercole, conducendo per mano una donna di
forme giovanili, eleganti, tutta avvolta in un velo nero)
ERCOLE:
   A un amico, parlar liberamente
   bisogna, Admèto, e non tacere, e chiuse
   dentro tenere le rampogne. Io, giunto
   tra i mali tuoi, ben degno mi credevo
   che l'amicizia mia mettessi a prova;
   ma tu la esposta salma della sposa
   mi nascondesti; e d'un estranio lutto
   ti fingesti dolente, e m'ospitasti.
   Ond'io la fronte ghirlandai, libai,
   nella tua casa sventurata, ai Numi!
   Ti rampogno di questo, ti rampogno.
   Ma non vo' fra i tuoi mali piú crucciarti.
   Senti adesso perché son qui tornato.
   Prendimi questa donna, e custodiscila,
   sin quando, ucciso dei Bistoni il re,
   con le cavalle tracie io qui non rieda.
   E se sciagura me cogliesse - ma
   tornerò, tornerò - te ne fo dono,
   ché ancella sia nella tua casa. - Duro
   travaglio fu, l'averla in queste mani.
   Genti rinvenni che una gara pubblica,
   ben degna di cimento, avean proposta
   per gli atleti. E di lí vengo io, recando
   questo trofeo. Cavalli erano premio
   ai piú lievi certami: a chi vincesse
   i maggiori, la lotta e i ludi pugili,
   greggi; premio supremo era la donna.
   Poi che lí mi trovai, vile mi parve
   lucro sí nobil non curare. Ed ora,
   tu questa donna custodisci, come
   ti pregai. Ché rubata ella non è,
   ma con gran pena guadagnata. E forse,
   un giorno, lode mi darai di ciò.
Admèto:
   Non per dispregio, e non per reputarti
   nemico, ti celai la sorte misera
   d'Alcèsti mia. Ma dolore, a dolore
   aggiunto avrei, se tu d'un'altra casa
   ospite andavi; e già pianto abbastanza
   mi dava il male mio. - Ma questa donna,
   se puoi, signor, te ne scongiuro, dàlla,
   dàlla in custodia ad un altro dei Tèssali,
   che sofferto non abbia ciò ch'io soffro.
   Molti son tra i Ferési ospiti tuoi:
   non far che il male mio sempre ricordi.
   Come potrei, vedendo in casa mia
   costei, frenar le lagrime? Malato
   sono io; di nuovo mal non aggravarmi!
   Già su me troppo la sciagura pesa.
   Dove potrebbe in questa casa vivere
   una giovane? Giovane è costei,
   quanto alle vesti e agli ornamenti pare.
   Nelle stanze degli uomini? Ma come
   rispettata sarà, stando fra giovani?
   Ai giovani por freno, non è facile,
   Ercole: ed io per te son previdente.
   O nelle stanze della sposa morta
   l'ospiterò? Come potrei condurla
   al talamo di lei? Duplice biasimo
   temo: dei cittadini, che diranno
   che, tradita la mia benefattrice,
   d'un'altra donna il talamo m'accolse;
   e della morta, degna ch'io la veneri,
   dare mi debbo gran pensiero. O donna,
   qual che tu sia, sappi che hai tu d'Alcèsti
   la forma stessa, e le somigli in tutto.
   Triste me! Lungi dalle mie pupille
   questa donna conduci: non aggiungere
   strazio a strazio. Mi par, se la contemplo,
   la mia sposa vedere. Mi s'intorbida
   il cuor, dagli occhi miei fonti dirompono.
PRIMO CORIFEO:
   Tua sorte lieta io non dirò. Ma forza
   è, qual che sia, dei Numi il dono accogliere.
ERCOLE:
   Deh! tanta forza avessi io, che la sposa
   tua ricondurre dalle buie case
   potessi a luce, e questa mercè renderti!
Admèto:
   So che vorresti. Ma poterlo! E come?
   I morti piú non tornano alla luce!
ERCOLE:
   Troppo non disperarti; ed abbi senno.
Admèto:
   Piú che soffrire, dar consigli è facile!
ERCOLE:
   Che vantaggio ti dà perpetuo pianto?
Admèto:
   Anch'io lo so; ma mi costringe amore.
ERCOLE:
   Amare un morto, non può dar che lacrime!
Admèto:
   Piú che dir non saprei; perduto io sono.
ERCOLE:
   Chi lo nega? Era egregia la tua sposa.
Admèto:
   Tanto, che mai piú gioia avrò dal vivere.
ERCOLE:
   Il tempo molcirà la doglia or fresca.
Admèto:
   Il tempo! Se per tempo intendi morte!
ERCOLE:
   Oblio darà di nuove nozze brama.
Admèto:
   Taci! che ciò dicessi io non credevo!
ERCOLE:
   Che? Piú non sposerai? Resterai vedovo?
Admèto:
   Donna piú mai con me non giacerà.
ERCOLE:
   Giovar con questo a lei ch'è spenta credi?
Admèto:
   Venerar quella, ovunque siasi, debbo.
ERCOLE:
   Lode, lode ti dò. Ma folle sei.
Admèto:
   Lodami ch'io mai piú sposo sarò!
ERCOLE:
   Che alla sposa fedele sii, ti lodo.
Admèto:
   Morrò, pria di tradirla, ancor che spenta.
ERCOLE:
   Nella casa ospitale or questa accogli.
Admèto:
   No! Per Giove tuo padre io te ne supplico.
ERCOLE:
   Erri, se quanto io chiedo non adempi.
Admèto:
   Troppo, adempierlo, il cuor mi morderebbe.
ERCOLE:
   Fallo: forse ne avrai degno compenso.
Admèto:
   Ahimè!
   Mai dall'agon costei condotta avessi!
ERCOLE:
   Fu la vittoria mia, vittoria tua.
Admèto:
   Dici bene: ma la mia sposa è morta.
ERCOLE:
   Se meglio è, se n'andrà: ma prima pensaci.
Admèto:
   Meglio è, se contro me tu non t'adiri.
ERCOLE:
   Non è senza ragion questa mia brama.
Admèto:
   Mi piego! Ma non fai cosa a me grata.
ERCOLE:
   Fallo, e ti basti. Un dí mi loderai.
Admèto:
   Poi che ospitarla è d'uopo, accompagnatela.
ERCOLE:
   Non lascerò la donna ai tuoi ministri!
Admèto:
   Guidala dentro, se lo vuoi, tu stesso.
ERCOLE:
   Vo' consegnarla nelle mani tue.
Admèto:
   La casa è aperta; ma non vo' toccarla.
ERCOLE:
   Sol nelle mani tue vo' consegnarla.
Admèto:
   Signor, quel ch'io non bramo a far m'astringi!
ERCOLE:
   Fa' cuor: tendi la man: tocca l'estranea.
Admèto:
   La tendo, come al capo della Górgone.
ERCOLE:
   La tieni?
Admèto:
   Sí.
ERCOLE:
   Sta bene, custodiscila;
   ed un giorno dirai che non ingrato
   ospite fu di Giove il figlio. Guarda
   se ti par che somigli alla tua sposa.
   (Toglie il velo dal capo d'Alcèsti)
   E dalla doglia a gioia oramai torna.
Admèto:
   Oh dio! Che devo dir? Quale prodigio?
   Chi lo sperava? La mia sposa vedo?
   La mia sposa davvero? O un Dio nemico
   d'ingannevole gioia me percuote?
ERCOLE:
   No! la tua sposa è quella che tu vedi!
Admèto:
   Dell'Averno non è dunque un fantasma?
ERCOLE:
   Non sono io mago evocatore d'anime!
Admèto:
   Vedo la sposa a cui diedi sepolcro?
ERCOLE:
   Quella. Che tu nol creda io non stupisco.
Admèto:
   Favellarle potrò, viva toccarla?
ERCOLE:
   Parla! Quanto bramavi adesso hai tutto.
Admèto:
   Oh volto, oh membra della donna mia
   dilettissima, or v'ho, contro ogni speme,
   quando pensavo di mai piú vedervi!
ERCOLE:
   L'hai. Non ti colga dei Celesti invidia.
Admèto:
   Del sommo Giove o generoso figlio,
   sii tu felice, e te protegga il padre
   tuo: mutata hai tu sol la sorte mia! -
   Come dal buio l'hai tornata a luce?
ERCOLE:
   Col Signore dei morti a pugna venni.
Admèto:
   Con Tànato? E il cimento dove fu?
ERCOLE:
   L'appostai, lo ghermii presso alla tomba.
Admèto:
   E perché muta la mia donna resta?
ERCOLE:
   Non è concesso che costei la voce
   di chi la chiama oda, se pria non venga
   purificata dagl'influssi inferni,
   e giunga il terzo giorno. In casa adducila.
   E giusto sii per l'avvenire, e pio
   con gli ospiti tuoi, sempre. Admèto, addio.
   Io di Stènelo al figlio, ad Euristèo
   parto, a compire la dovuta gesta.
Admèto:
   Con noi rimani! Siedi alla mia mensa!
ERCOLE:
   Al mio ritorno. Adesso ho fretta. Addio.
(Parte)
Admèto:
   Vivi felice; e a noi rivolgi il passo
   al tuo ritorno. E ai cittadini tutti
   indíco, e ai quattro regni, che per questa
   prospera sorte, danze istituiscano
   e canti, e l'are fumino di vittime.
   Verso piú dolce vita ora moviamo:
   ché non lo nego: io sono, io son felice!




Euripide Alcesti - Traduzione di Ettore Romagnoli

( Da: http://www.filosofico.net/filos.html /
posizione: http://www.filosofico.net/alcestieuripide42.htm )


SOMMARIO


 



Progetto LOSFELD:
Nello sfondo, sulla sponda di un Mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'Estremo Limite del Nulla: sull'orlo di quell'Abisso combatto la mia battaglia. (Ernst Jünger)


Ad una Naumachìa di barchette dorate affidiamo Ricordi.


"Godi se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l' ondata della vita: / qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquario. / Il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell'eterno grembo; / vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo. / [p.16] Un rovello è di qua dall’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva: / si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro./ Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ va, per te l’ho pregato, - ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…"
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia - In Limine, Mondadori, XV Ediz., 1962 [s.l.st.], pp. 14-16).

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http://parzifalpurissimo.blogspot.com/ - a cura di Giovanni Pititto
(E-mail: parzifal.purissimo@gmail.com




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