lunedì 15 agosto 2011

Εὐριπίδης - Euripides, Aλκηστις - Alkestis - Alceste - Alcestis - Alcesti


FABULA_ALCESTI@PUNTOSEIUNO.IT

ADATTAMENTO SCENICO
DA EURIPIDE

A cura di 
Giovanni Pititto




Εὐριπίδης


Aλκηστις

(Ἀνάγκη ?)
(a cura di Giovanni Pititto)



Ich nahm ja Abschied. 

Abschied über Abschied. 

 

Rainer Maria Rilke

Alkestis

Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse più di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene... (e subito sarà
tra le braccia che s'aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch'ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d'oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.
Nessun morente più di me, che vengo
perchè tutto,sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.

Come la brezza che si leva al largo,
il dio s'avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall'uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l'uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente...
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere più che quel sorriso.





Frederic Leighton,
Hercules Wrestling with Dear for the Body of Alcestis,
(1869-71),
Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, C.T.
The Ella Gallup and Mary Catlin Sumner Collection Fund.



Rainer Maria Rilke

Ich nahm ja Abschied. 
Abschied über Abschied. 
Alkestis

Da plötzlich war der Bote unter ihnen 
hineingeworfen in das Überkochen 
des Hochzeitmahles wie ein neuer Zusatz. 
Sie fühlten nicht, die Trinkenden, des Gottes 
heimlichen Eintritt, welcher seine Gottheit 
so an sich hielt wie einen nassen Mantel 
und ihrer einer schien, der oder jener, 
wie er so durchging. Aber plötzlich sah 
mitten im Sprechen einer von den Gästen 
den jungen Hausherrn oben an dem Tische 
wie in die Höh gerissen, nicht mehr liegend, 
und überall und mit dem ganzen Wesen 
ein Fremdes spiegelnd, das ihn furchtbar ansprach. 
Und gleich darauf, als klärte sich die Mischung, 
war Stille; nur mit einem Satz am Boden 
von trüben Lärm und einem Niederschlag 
fallenden Lallens, schon verdorben riechend 
nach dumpfen umgestandenen Gelächter. 
Und da erkannten sie den schlanken Gott, 
und wie er dastand, innerlich voll Sendung 
und unerbittlich, - wußten sie es beinah. 
Und doch, als es gesagt war, war es mehr 
als alles Wissen, gar nicht zu begreifen. 
Admet muß sterben. Wann? In dieser Stunde.
Der aber brach die Schale seines Schreckens 
in Stücken ab und streckte seine Hände 
heraus aus ihr, um mit dem Gott zu handeln. 
Um Jahre, um ein einziges Jahr noch Jugend, 
um Monate, um Wochen, um ein paar Tage, 
ach, Tage nicht, um Nächte, nur um Eine, 
um Eine Nacht, um diese nur: um die. 
Der Gott verneinte, und da schrie er auf 
und schrie's hinaus und hielt es nicht und schrie 
wie seine Mutter aufschrie beim Gebären.
Und die trat zu ihm, eine alte Frau, 
und auch der Vater kam, der alte Vater, 
und beide standen, alt, veraltet, ratlos, 
beim Schreienden, der plötzlich, wie noch nie 
so nah, sie ansah, abbrach, schluckte, sagte: 
Vater, 
liegt dir denn viel daran an diesem Rest, 
an diesem Satz, der dich beim Schlingen hindert? 
Geh, gieß ihn weg. Und du, du alte Frau, 
Matrone, 
was tust du denn noch hier: du hast geboren. 
Und beide hielt er sie wie Opfertiere 
in Einem Griff. Auf einmal ließ er los 
und stieß die Alten fort, voll Einfall, strahlend 
und atemholend, rufend: Kreon, Kreon! 
Und nichts als das; und nichts als diesen Namen. 
Aber in seinem Antlitz stand das Andere, 
das er nicht sagte, namenlos erwartend, 
wie ers dem jungen Freunde, dem Geliebten, 
erglühend hinhielt übern wirren Tisch. 
Die Alten (stand da), siehst du, sind kein Loskauf, 
sie sind verbraucht und schlecht und beinah wertlos, 
du aber, du, in deiner ganzen Schönheit -
Da aber sah er seinen Freund nicht mehr. 
Er blieb zurück, und das, was kam, war sie, 
ein wenig kleiner fast, als er sie kannte 
und leicht und traurig in dem bleichen Brautkleid. 
Die andern alle sind nur ihre Gasse, 
durch die sie kommt und kommt -: (gleich wird sie da sein 
in seinen Armen, die sich schmerzhaft auftun).
Doch wie er wartet, spricht sie; nicht zu ihm. 
Sie spricht zum Gotte, und der Gott vernimmt sie, 
und alle hörens gleichsam erst im Gotte:
Ersatz kann keiner für ihn sein. Ich bins. 
Ich bin Ersatz. Denn keiner ist zu Ende 
wie ich es bin. Was bleibt mir denn von dem 
was ich hier war? Das ists ja, daß ich sterbe. 
Hat sie dirs nicht gesagt, da sie dirs auftrug, 
daß jenes Lager, das da drinnen wartet, 
zur Unterwelt gehört? Ich nahm ja Abschied. 
Abschied über Abschied. 
Kein Sterbender nimmt mehr davon. Ich ging ja, 
damit das Alles, unter Dem begraben 
der jetzt mein Gatte ist, zergeht, sich auflöst -. 
So führ mich hin: ich sterbe ja für ihn.
Und wie der Wind auf hoher See, der umspringt, 
so trat der Gott fast wie zu einer Toten 
und war auf einmal weit von ihrem Gatten, 
dem er, versteckt in einem kleinen Zeichen, 
die hundert Leben dieser Erde zuwarf. 
Der stürzte taumelnd zu den beiden hin 
und griff nach ihnen wie im Traum. Sie gingen 
schon auf den Eingang zu, in dem die Frauen 
verweint sich drängten. Aber einmal sah 
er noch des Mädchens Antlitz, das sich wandte 
mit einem Lächeln, hell wie eine Hoffnung, 
die beinahe ein Versprechen war: erwachsen 
zurückzukommen aus dem tifen Tode 
zu ihm, dem Lebenden -
Da schlug er jäh 
die Hände vors Gesicht, wie er so kniete, 
um nichts zu sehen mehr nach diesem Lächeln.
Rainer Maria Rilke
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(Da:
http://www.unix-ag.uni-kl.de/~kasparek/Rilke/Alkestis.html . Si ringrazia)









Euripides, Aλκηστις. Christoph Willibald Gluck,  Alkestis - Alceste - Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi - Jessye Norman. 
(Da http://www.youtube.com/watch?v=AG-wMqtMb1g&feature=related / Caricato su Youtube da in data 25 luglio 2008. Si ringrazia).





Ἀνάγκη.
Ananke ?
Come per Euridice?
Dalla Notte dei Miti la Fabula Orphei è sospesa tra lo sprezzante giudizio di Platone
e la tragica conclusione di Cesare Pavese.




Christoph Willibald Gluck - Orphée et Eurydice (Orpheus among the Blessed Spirits)


Ananke?
Se per Euridice la "Necessità" (Ananke):
l'assoggettarsi all'immodificabilità della sua condizione
ne fu una dolorosa costrizione;
si allontana, da Orfeo;
torna indietro;
agisce in un dover "permanere",
per Alcesti fu una scelta.

Anche questa dettata dall'insopprimibile ed immodificabile Ananke (Necessità): "salvare"?
Chi? Un Admeto?
Colui che chiede al Padre?
Colui che ne vorrebbe dalla Madre?
Colui che ne spera nell'Amico?
Ne era consapevole Alcesti? 

- Sì. 

Cosa la spinse, dunque? 
La Pietà. 
Ananke dunque. 

- Sì, la Necessità: 
l'assoggettarsi all'immodificabilità di una condizione:
Far vivere.
E in quel contesto Qualcuno doveva morire.  
E' Morta per un Admeto, Alcesti? Forse una rilettura di Euripide sarebbe opportuna. Alcesti era una Madre. E si sacrifica per i figli.


  ALCESTE 
  "Ombre, larve, compagne di morte
non vi chiedo, non voglio pietà.
Se vi tolgo l'amato consorte,
v'abbandono una sposa fedel.

Non mi lagno di questa mia sorte,
questo cambio non chiamo crudel.
Ombre, larve, compagne di morte
non v'offenda sì giusta pietà.

Forza ignota che in petto mi sento,
m'avvalora, mi sprona al cimento:
di me stessa più grande mi fa.

Ombre, larve, compagne di morte
non vi chiedo, non voglio pietà.

(Gluck, Alcesti, Act I, Scene V: Aria: Ombre, larve, compagne di morte).


II.

Ἀνάγκη.
Ananke ?

APOLLO.
(...)
APOLLO
Essenza l'Alba cambiò.  Volse le spalle alla Vita. E Morte oggi reclama.  Thanato rapace correre vedo. Lei attende; membra trascina; a braccia portata; sua anima pronta. Per Admeto muore. A che egli non pèra.
Lotta sostenni con le Parche fiere; tutto per Admeto io ottenni: che per pagar mio debito egli non muoia. Vollero Elle altri ne paghi.
Gambe braccia polvere piedi tutto abbracciò, Admeto: invano. Nessuno volle morire; per lui.
E ne chiese supplice al Padre; coraggio o viltà non gli mancò dall'esigere dalla Nivèa Madre. Invano. 
Solo Lei, Lei e solo - da sola s'offrì. 
Non n'era obbligata. 
Se non che Tutti, obbligati ne siamo: Ananke. (Gp) 
    

TANATO
Tànato (Appare improvviso. E' un giovine avvolto in un peplo nero: impugna una spada).

(Apollo e Tànato escono, uno da una parte, uno dall'altra. Dalle due párodoi avanza il coro, composto di cittadini di Fère, uomini, donne, giovani, vecchi. I due corifei cantano la strofe e l'antistrofe. Altri, a volta a volta, prendono la parola).

(...)

PRIMO CORIFEO
Ananke Alcesti avvolge.
Dei l'attendono Sopra, se viver forte volesse.
Alcesti Ananke avvolge.
Dei l'attendono Sotto, se passiva del Fato complice sia.

Pure proviamo farle sentire l'Eco del nostro dolore:

"Alcesti! Ti sei chiusa in un silenzio impenetrabile. In una barriera tutta tua. Fatta di stanchezza e sicuramente di dolori. Nulla esiste più; e nessuno. Esiste solo il dolore tuo, lo stupore tuo, il senso di abbandono, tuo.
Richiamo disperato che al tuo nido di voluttà di morte dal popol tuo giunge non infrange tal'abbandono, tale stanchezza, tale dolore. Hai curato di vita non te ne giunga voce. Più.
Gridiamo dunque verso le montagne sacre: a che almen te ne giunga l'eco. A che tu sappia. A che tu veda. Che la Vita non chiede. Ma c'è. Non abbandonarla per una causa persa. 
Di capo raso, di neri ammanti lì ci approssimiamo, noi. Testimoniarti almen che il giorno nostro è pieno della stanchezza tua, dell'abbandono tuo, della tristezza, tua.
Ma non dell'abbandono nostro." (Gp) 



<ANCELLA>  
Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci. (Ro)

(...)
PRIMO CORIFEO: 
Alcesti! Una tazza scalda la mano nel freddo diaccio di un'altra mattina ove solo speranza migliori il tuo stato allevia la pena. Speranza si specchia in raggio dorato di luce sopra di me. Ti trasfonda fiducia. Verso essa te volgi. (Gp)


<ANCELLA>  
(...)
   Entrò quindi nel talamo, sul letto nuziale; e qui pianse, e favellò. (Ro)


<ALCESTI>  
«Letto che avesti il fior della mia vita, addio: non t'odio io, no, sebbene muoio solo per te: per non tradir lo sposo e te, muoio. Sarai d'un'altra donna, non piú casta di me: piú fortunata». (Ro)


<ANCELLA>
   E su vi cade; e lo bacia; e d'un fiotto di lagrime la coltre è molle tutta. (Ro)
  (...)


ANCELLA
   Tien fra le braccia la diletta sposa, e piange, e prega perché non lo lasci. L'impossibile cerca! Ella si strugge nel suo male, si disfa, s'abbandona, triste peso, al suo braccio. E, benché poco  respiri piú, del sole i raggi anela. (Ro)


PRIMO CORIFEO - Strofe terza  
(...)
Giungi anche adesso, giungi, frena Averno sanguineo, e la morte tien lungi. (Ro)

SECONDO CORIFEO - Antistrofe terza  
Parti!, popolo di Fère, come gli Eroi Antichi parti - fra mille perigli parti - per mortificare te, se Alcesti la Nera Porta varca.
Fortifica te, popolo di Fère; e avanza - avanza continua questo Viaggio all'interno dell'Alcesti relitta da Tempesta fra gli sprazzi dell'animo suo su di una spiaggia sparsi. Ricomponili.
Totem, un totem ne sia d'Amor Fortezza Carità rimodellane sulla mentale sabbia. Carità non le negare o fiero popolo cui a breve t'è negata la Regina. Nella Tempesta seguila. Nel muggìto del suolo di quel lago oscuro di profondo Abisso non lasciarla sola. Volgila almeno verso un raggio di Luce. (Gp)

(Entra Admèto, sostenendo Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. Ancelle, servi, guardie)

ALCESTI
  
Sole, Luce di Vita; diafane limpide nubi veloci. (Gp)


ADMÈTO:
  
Ci vede, Sì, il Sole. Sventura, su noi portiamo, noi che ai Numi pur nulla facemmo. Ci vede, sì, il Sole. Che ti rapisce. (Gp)


ALCESTI
  
Terra. Riparo. Mi desti alla luce. Jolco. Tu Jolco mio Jolco. (Gp)


ADMÈTO:
  
Oh! Misera. Sorgi. Sorgi Alzati non disporti di già, abbi abbiate abbi oh sì! Pietà. (Gp)


ALCESTI
  
Vedo. Lo, vedo. Caronte grida. Aspìra, mi prende, la sua voce. (Gp)


ADMÈTO:
  
Non comprendo. Aiutà...mi, a capi...re. (Gp)


ALCESTI
  
Tienimi. Trattienimi. Qualcuno tenga, il corpo mio così dall'Ade violentemente preso. Opponetevi...fatemi vivere! (Gp)


ADMÈTO:
  
Piangiamo. Ti, piangiamo. Chè ci abbandoni. (Gp)


ALCESTI
  
Vostra è o Figli la Luce e questa, del radioso giorno. La Madre la Vostra oggi Non E'. Notte, la notte, è in me. Adagìatemi, ora. Ora lascìatemi. (Gp)


ADMÈTO:
  
Tu sola, per me, vivere o morire. Sorgi, o io morrò. Pei figli, sorgi. Per me che del Destin di di Ciò e Tanto ho duro il capire. (Gp)


ALCESTI
  
Tu, a Te, or io dico: potevo vivere; volevo vivere; ma saresti morto tu. Abbandonata io, derelitti i figli miei. Lasciai la giovinezza la vita, mia, a che tu viva. I miei figli con te. S'oppose un Dio a che vivessi, io. Vivessero i figli, con me. Mancando te. A tutti chiedesti. Tutti tradisti, loro il Tutto chiedendo. Tradisti il Padre. Tradisti la Madre. Da tutti tradito, loro chiesto e negato.
Muoio io, per te. Vivi tu. Sii però Padre. Sii però Madre, pei figli nostri. Non abbandonarli a mano violenta matrigna. Non sposarti, s'almen loro hai tu cari.
Me lo devi. Non per me, che pur muoio; e muoio per te.
Me lo devi per lei: povera bimba: chi ti cullerà nella giovane vita?! Chi, di madre e da madre, a te, un dì novella sposa, t'assisterà; da chi di chi di una parola il conforto di un sospiro il dono di carezza lieve quando tu partorirai? Io devo Andare, lo sai. Non potrò esserci. Ti sentirai sola. Ricordami; non per me ricordami; non per me, ma a che tu non te ne senta derelitta e e sola: tua madre fui. (Gp)


ADMÈTO:
   
Ai Numi solo chiedo: mi sia concesso gioìre; de' figli, ora, che di te più non m'è dato. Mi vestirò a sempiternolutto. Abolirò feste e banchetti. Odierò mio Padre. Che morire non volle per me. Odierò mia Madre. Che vita sua vita la sua di vita non mi volle dare. Sarò triste. Ma tomba Tomba Solenne avrai. La figura tua d'artista distesa su d'essa vedrò. Ad essa il capo appoggerò. Pensando di stringerti. Stringerti a me.
Tu aspettami.
Vi foss'io Orfeo! Se il suono suo de le parole d'Incanto verrei, io, sì, verrei: nel Luogo ove Gelate ne sono le Stelle. A del Suono scioglierle. Di pietà. Di Pietà per Te.
Non sono, Orfeo. Non sono. Ma tu aspettami. Quand'io morrò, sì, verrò. A stendermi al tuo fianco, verrò. (Gp)



PRIMO CORIFEO:   Spirò. Spenta d'Admèto è la consorte. (Ro)

***
(Euripide, Alcesti)
(Ro): Traduzione da Euripide e versione di Romagnoli.
(Gp): Adattamento Scenico di Giovanni Pititto: Fabula Alcesti- PuntoSei-Uno.




NOTE

Su Frederic Leighton, Hercules Wrestling with Dear for the Body of Alcestis, (1869-71), Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, C.T. The Ella Gallup and Mary Catlin Sumner Collection Fund, cfr. Margot Th. Brandlhuber and Michael Buhrs, Frederic Lord Lighton. 1830 - 1896. Painter and Sculptor of the Victorian Age, Prestel - Munich, 2009, pag. 22. (Note editoriali: "This book is publisched on the occasion of the exhibition Frederic Lord Lighton. 1830 - 1896. Painter and Sculptor of the Victorian Age. An exhibition organized by the Museum Villa Stuck, Munich, in collaboration with Leighton Museum London, Royal Borough of Kensington and Chelsea. May 30 - September 13, 2009, Museum Villa Stuck, Munich, http://www.villastuck.de/

Per il montaggio grafico in questa pagina web ci si è avvalsi della illustrazione dell'opera di Leighton, in: http://www.sschool8.narod.ru/Masters/Laiton/ , alla posizione: http://www.sschool8.narod.ru/Masters/Laiton/755a.jpg (Si ringrazia).


Per il video su Christoph Willibald Gluck,  Alcesti, su libretto di Ranieri de' Calzabigi, nell'interpretazione di Jessye Norman: Fondamentale nella riforma gluckiana dell'Opera dopo l'Orfeo ed Euridice, venne presentata al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre 1767. - Jessye Norman sings: The wonderful long lines of Gluck, served by the wonderful breath, diction, and vocal tones of Norman in "Ah malgré moi" (act 2) and "Ah divinités implacables" (act 3) - (Chicago, 1990).
(Da
http://www.youtube.com/watch?v=AG-wMqtMb1g&feature=related / Caricato su Youtube da in data 25 luglio 2008. Si ringrazia).



APPARATI



II.

Ἀνάγκη.
Ananke ?

APOLLO.
(...)
APOLLO
Ora io da morte, deludendo le Parche, lo salvai. Mi concessero quelle che l'Averno schivar potesse Admèto, se in sua vece offrisse un altro agl'Inferi. Provò tutti gli amici, a tutti ebbe ricorso, e al padre e alla canuta madre; e niuno trovò, tranne la sposa, che sostenne per lui morire, e abbandonar la luce.  


Ella, portata a braccia, or ne la casa l'anima rende. Ché morire deve in questo giorno, e abbandonar la vita. Or la casa diletta io lasciar devo, perché me non contamini il contagio. Ché già Tànato veggo avvicinarsi, sacerdote dei morti, che la donna condurrà nell'Averno.
Il dí spiava ch'ella morir dovesse; e in punto giunse. (Ro)

    

TANATO
Tànato (Appare improvviso. E' un giovine avvolto in un peplo nero: impugna una spada):   
Che fai su la soglia? Che giri qui attorno? Non operi, o Febo, secondo giustizia, che predi agl'Inferi i loro diritti!
   Assai non ti fu contrastare al fato d'Admèto, eludendo con arte di frode le Parche, che, armata la destra dell'arco, or giungi a soccorrer la sposa, la figlia di Pelio, che sé offriva alla morte, se salvo facesse lo sposo?

(Apollo e Tànato escono, uno da una parte, uno dall'altra. Dalle due párodoi avanza il coro, composto di cittadini di Fère, uomini, donne, giovani, vecchi. I due corifei cantano la strofe e l'antistrofe. Altri, a volta a volta, prendono la parola).

(...)
PRIMO CORIFEO -
Strofa seconda  
Né su la terra è plaga, non la Licia, né l'arida dell'Ammonio dimora, a cui volger la prora alcuno possa, e l'anima della misera Alcèsti riscattar: ché su lei pesa l'ineluttabile Fato.
Di quali Dei mover debba all'altare non so, né quali debba ostie sgozzare. (Ro)

<ANCELLA>  
Quanto in casa ella fece, odi, e stupisci.
Poi che giungere vide il giorno estremo, volonterosa, pria le pure membra lavò nella corrente acqua; e dall'arche di cedro, vesti ed ornamenti trasse, e s'abbigliò compostamente.
(...)

E stando presso all'ara di Vesta, la pregò:
<ALCESTI>  
«Ora che ai regni sotterranei scendo, quest'ultima preghiera, o Dea, ti volgo.
   Proteggi i figli miei. Fida una sposa unisci a questo: un generoso sposo  a questa. E non come io, lor madre, muoio, muoiano innanzi tempo i figli miei; ma nella patria vivano felici».


PRIMO CORIFEO: 
Di sí nobile sposa andare privo! Certo, per questo male Admèto piange. (Ro)


<ANCELLA>  
E a quanti altari nella reggia sono, andò, li ghirlandò, pregò, scerpendo dalla chioma d'un mirto i ramicelli, senza pianto, né gemito: né il vago viso turbava l'imminente fine.
   Entrò quindi nel talamo, sul letto nuziale; e qui pianse, e favellò.

<ALCESTI>  
«Letto che avesti il fior della mia vita, addio: non t'odio io, no, sebbene muoio solo per te: per non tradir lo sposo e te, muoio. Sarai d'un'altra donna, non piú casta di me: piú fortunata».

<ANCELLA>
   E su vi cade; e lo bacia; e d'un fiotto di lagrime la coltre è molle tutta.
   Or, poi che sazia fu del pianto lungo, si stacca dalle coltri, e s'allontana.
   Ma nell'uscir dal talamo, si volge piú volte; e sovra il letto ancor si gitta.
   Stretti alle vesti della madre, i figli piangeano. In braccio essa li prese: e già moribonda, baciava or l'uno or l'altra.
   Tutti i servi piangean nella dimora, per la pietà della regina. Ed essa tese a tutti la destra. E niuno v'era umil cosí, che a lui non favellasse, che a lei non rispondesse. Ecco che avviene nella casa d'Admèto. Oh, s'egli fosse morto, non piú sarebbe. Ma, scampato, tale è il suo duol, che non avrà mai fine.



ANCELLA
   Tien fra le braccia la diletta sposa, e piange, e prega perché non lo lasci. L'impossibile cerca! Ella si strugge nel suo male, si disfa, s'abbandona, triste peso, al suo braccio. E, benché poco  respiri piú, del sole i raggi anela.


PRIMO CORIFEO - Strofe terza   Oh dio Peane, trova rimedio tu pei casi tristi d'Admèto, e a lui lo porgi. Un'altra volta già tu lo rinvenisti. Giungi anche adesso, giungi, frena Averno sanguineo, e la morte tien lungi.
A:
   Ahimè, ahimè! Che sposa a te s'invola, o figliuol di Fèrete! Ahi, sventura, sventura!
B:
   Stringere ei non dovrebbe alla sua gola laccio funesto, o spegnersi di morte anche piú dura?
C:
   La tua, cara non dico, carissima consorte, veder dovrai quest'oggi cader preda alla morte.

SECONDO CORIFEO -
Antistrofe terza   Oh vedi, vedi! Esce già dalla reggia anche il signore. Ulula, piangi tu, suolo di Fère! Dal morbo la migliore delle donne consunta, per sotterraneo valico nel buio Averno è giunta.  (...) (Ro)


(Entra Admèto, sostenendo Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si appendono alle sue vesti. Ancelle, servi, guardie)

ALCESTI
   Sole, luce del giorno, ètere, limpide veloci nuvole! / (Ro)

ADMÈTO:
   Te vede il sole e me, due sventurati. Nulla offendemmo i Numi: eppur tu muori. / (Ro)

ALCESTI
   Terra, tetto dell'atrio, nuzial talamo di Jolco mia! / (Ro)

ADMÈTO:
   Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega gli Dei possenti ch'abbiano pietà. / (Ro)

ALCESTI
   Vedo la cimba, vedo! Con la mano sul remo, Caronte, il navicchiere dei defunti, gia già  mi chiama. «Non t'affretti? Che indugi? Tarderemo per te!» La sua parola piú veloce mi fa. / (Ro)

ADMÈTO:
   Misero me! Di che partenza dura favelli! Qual su noi piombò sventura! / (Ro)

ALCESTI
   Mi tragge alcun, mi tragge! Su me confitta è d'Ade la cerula pupilla fosca: trascina me dei morti all'aula. - Lasciami. Che mi fai? - Per che strade, o donna infelicissima, volgere debbo il pie'! / (Ro)

ADMÈTO:
   Strade di pianto per gli amici, e piú per me, pei figli, che abbandoni in lutto. / (Ro)

ALCESTI
   Lasciatemi, lasciatemi, adagiatemi. Piú non mi reggono i piedi. Morte è già presso: ombrosa notte sopra gli occhi repe. Figli, figli, la madre vostra non vive piú. Addio, figli, godete questa luce del giorno. / (Ro)

ADMÈTO:
   Ahimè! Questi detti al mio cuore son piú che ogni morte funesti!
Oh no, non partire, ti prego pei Numi, pei figli che tu lasci orfani!
Sorgi, fa' cuore! Se muori, io morrò. Tu sola puoi darmi la vita o la morte. / (Ro)
ALCESTI
   Admèto, a te che la mia sorte vedi, dirò, pria di morir, quello che bramo.
Io piú che me, te caro avendo, a prezzo del viver mio, la luce a te serbata, muoio. E potevo non morir per te, ma chi volessi sposo aver dei Tèssali, e sovrana regnar ne la mia reggia. Ma divelta da te non volli vivere coi figli derelitti; e abbandonai di giovinezza i doni ond'io godevo. 
L'uom che te generò, la madre tua ti tradirono. Ed erano pur giunti agli anni in cui lasciar la vita è giusto; e bello era per lor salvare il figlio, gloriosa la morte; e avean te solo, né speranza d'avere altri figliuoli se tu morivi; ed io vissuto avrei sempre vicino a te; né tu soletto piangeresti la sposa, e i figli tuoi orfani educheresti.
Ma un Dio volle che cosí fosse tutto questo.
E sia.
Ma tu, memore, rendimi una grazia. Al beneficio pari non sarà, ché nulla val quanto la vita vale;
ma ben giusta: e tu stesso lo dirai: ch'ami non men di me questi fanciulli, se pure hai senno.
Fa' ch'essi padroni sian della casa mia, schiva le nozze, ai figli miei non dare una matrigna, che, non avendo il cuore mio, per astio, sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano.
Non farlo, no, ti prego.
Ai primi figli sopraggiunge nemica una matrigna: cuore non ha piú mite d'una vipera. 
Il figlio maschio trova un baluardo nel padre suo; ma tu, pargola mia, chi curerà la tua giovine vita? Come sarà con te la nuova sposa del padre tuo? Di mala fama, forse, nei floridi anni tuoi ti brutterà, sí che distrugga le tue nozze. Sposa te non farà la madre: ai parti, o figlia, te non assisterà, dove nessuno ha d'una madre il cuore!
Io morir devo, e non domani, e non il terzo dí  del mese, il mal m'attende; ma fra poco viva chiamar me non potrete.
Addio, siate felici.
Gloriarti, o sposo, potrai che la tua sposa ottima fu: e voi, figliuoli, della madre vostra. (...) / (Ro)

ADMÈTO:
   Sarà, tutto sarà. Non temere. Io t'ebbi sposa da viva; e morta, ancora unica sposa mia detta sarai. Niuna Tessala piú mi chiamerà sposo, e sia pur di nobil sangue, sia di vaghissime forme. Ai Numi, questo soltanto io chiedo: che mi sia concesso gioir dei figli, or che di te gioire piú non m'è dato. E non un anno il lutto tuo porterò; ma sin ch'io resti in vita, o sposa: e aborrirò la madre mia, il padre aborrirò. M'erano amici, non a fatti, a parole. Invece tu, la carissima vita in cambio offerta, salvato m'hai. Come potrei non piangere, perduta avendo una compagna tale?
   Porrò fine ai convivî, ed ai simposî, alle ghirlande, ai canti che sonavano nella mia casa. Piú non toccherò cetra, né piú solleverò lo spirito, cantando al suon di flauto libio. Tu della vita m'hai tolto ogni diletto.
   La tua figura effigiata dalla mano di saggio artefice, starà distesa su le coltrici; ed io, prono  accanto a lei, la cingerò con queste braccia, invocando il nome tuo, pensando fra le braccia tener la mia diletta.
   Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso solleverà dell'anima. E nei sognim'apparirai, m'allieterai. Soave è la notte vedere i nostri cari quando che sia. Se le parole e il canto possedessi d'Orfeo, sí che, molcendo di Demètra la figlia e il suo signore, te dall'Averno riaddur potessi, vi scenderei; né di Plutone il cane  mi tratterrebbe, né Caronte, d'anime conduttor, pria che a luce io ti rendessi.
   Ora attendimi là, quando io sia morto, e prepara la casa ove dimora avrai con me. Ché porre io mi farò in questa istessa arca di cedro, il fianco vicino al fianco tuo; né, morto, mai sarò da te disgiunto, o sola fida! (...) / (Ro)



ALCESTI
   Figli, del padre le parole udiste: non sposerà, che sia vostra nemica, un'altra donna: a me non farà torto.

ADMÈTO:
   Lo affermo anche una volta; e manterrò.

ALCESTI
   E allor, dalla mia mano abbiti i figli.

ADMÈTO:
   Oh caro dono di mano diletta!

ALCESTI
   In vece mia, sii tu madre per essi.

ADMÈTO:
   Forza sarà, quand'io di te son privo.

ALCESTI
   Quando viver dovevo, o figli, parto.

Admèto:
   Che farò di te privo, o me infelice!

ALCESTI
   Chi muor dispare. Avrai medico il tempo.

ADMÈTO:
   Con te laggiú, con te laggiú mi reca! Tempo? Solo di seguirti.

ALCESTI
   Io basto, che per te volli morire.

ADMÈTO:
   Di quale sposa, o Dèmone, mi privi!

ALCÈSTI:
   Già pieno d'ombra l'occhio mio s'aggrava.
ADMÈTO:
   Morto anche io sono, se mi lasci, o sposa!

ALCESTI
   Dire ben puoi che nulla io sono piú.

ADMÈTO:
   Leva il tuo volto... non lasciare i figli!

ALCESTI
   Non io voglio lasciarli... Oh figli... Addio!

ADMÈTO:
   Guardali ancor, guardali ancora!

ALCESTI
   Muoio!

Admèto:
ADMÈTO:

   Che fai? Ci lasci?
(...)

PRIMO CORIFEO:   Spirò. Spenta d'Admèto è la consorte.

***
(Euripide, Alcesti)
(Ro): Traduzione da Euripide e versione di Romagnoli.
(Gp): Adattamento Scenico di Giovanni Pititto: Fabula Alcesti-PuntoSei-Uno.



FONTI




Parti!, popolo di Fère, come gli Eroi Antichi parti - fra mille perigli parti - per mortificare te, se Alcesti la Nera Porta varca.
Fortifica te, popolo di Fère; e avanza - avanza continua questo Viaggio all'interno dell'Alcesti relitta da Tempesta fra gli sprazzi dell'animo suo su di una spiaggia sparsi. Ricomponili.
Totem, un totem ne sia d'Amor Fortezza Carità rimodellane sulla mentale sabbia. Carità non le negare o fiero popolo cui a breve t'è negata la Regina. Nella Tempesta seguila. Nel muggìto del suolo di quel lago oscuro di profondo Abisso non lasciarla sola. Volgila almeno verso un raggio di Luce. (Gp)


In corso di pubblicazione in:
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INDICIZZAZIONE IN CORSO


 



Progetto LOSFELD:
Nello sfondo, sulla sponda di un Mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'Estremo Limite del Nulla: sull'orlo di quell'Abisso combatto la mia battaglia. (Ernst Jünger)


Ad una Naumachìa di barchette dorate affidiamo Ricordi.


"Godi se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l' ondata della vita: / qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquario. / Il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell'eterno grembo; / vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo. / [p.16] Un rovello è di qua dall’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva: / si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro./ Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ va, per te l’ho pregato, - ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…"
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia - In Limine, Mondadori, XV Ediz., 1962 [s.l.st.], pp. 14-16).

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2 commenti:

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