giovedì 28 luglio 2011

Genova Pegli. Villa Centurione-Doria. Giovanni Andrea Doria - Zenobia Del Carretto Doria. 002.

Genova Pegli. Villa Centurione-Doria.
Giovanni Andrea Doria - Zenobia Del Carretto Doria.





Il volto femminile in medaglione è particolare del fregio agli affreschi del Salone di Villa Centurione-Doria in Pegli. Si è nel dubbio se si possa ipoteticamente trattare di una raffigurazione idealizzata - ex post - di Zanobia del Carretto Doria, amatissima moglie del principe Giovanni Andrea Doria. Oppure, sempre idealizzazione, di un'altra donna che - sembrerebbe - abbia avuto un ruolo molto importante nella vita di questo principe: Katharina (o Katherine) von Braunschweig-Calenberg? - Katherine di cui da varie fonti se ne registrerebbe un matrimonio segreto con il principe. Già nel primo ipotetico caso una qualunque interpretazione apporterebbe il doversi conseguentemente orientare per altro e diverso personaggio femminile inerentemente quella pala d'altare della chiesa genuense di S. Benedetto al Porto: ove, ossia, non della moglie del principe Giovanni Andrea: Zenobia del Carretto Doria, morta il 18. 12. 1590, se ne dovrebbe dire, bensì della madre del principe: Ginetta Centurione (n. Genova c. 1520 - m. ivi, 18.08.1593; sposata con Giannettino Doria nel 1515). A tanto apporterebbe l'aspetto morfologico-fisiognomico della matrona effigiata unitamente al principe anzidetto alla destra del registro inferiore nella pala d'altare della chiesa di S. Benedetto: apparirebbe molto più anziana del probabile aspetto di Zenobia prima della infermità e morte. I lavori per detta chiesa rimontano poi al 1593; in tale anno muore Ginetta Doria; medesima data viene riportata nelle epigrafi affisse sotto il pronao della chiesa: l'una declamatoria dei titula del principe fondatore: Giovanni Andrea, l'altra (a dx) attestativa di avere questi adempiuto alle volontà di Zenobia. Ma tali volontà ne erano sulla scelta dei Trinitari. Il frale di Zenobia non è in detta chiesa, è altrove; venne ricongiunto a quello dell'amato consorte nel 1606, anno di morte del principe stesso.
Ma sta di fatto anche che il "mistero" inerente Katherine s'infittisce ove si riscontri, come pur se ne deve in varie fonti riscontrare, che se è noto che il principe Giovanni Andrea (I) decede nel suo palazzo il 2 di febbraio dell'anno di grazia 1606..., ebbene...misteriosamente ne abbiamo che anche tale Katherine risulta deceduta anch'essa nello stesso giorno, mese, anno. / Segue /
L'incisione di fine del XVI, raffigurante Giovanni Andrea Doria è di Anonimo: Ritratto del principe Giovanni Andrea Doria. Cartiglio: IOAN. ANDREAS DORIA DNUS MALFITANUS A CONS. SACR. S. CATHOLICHAE REG. M. ET CLASSIS IPSIUS IMPERATOR SUMMUS. // - Iscrizione: Est hic IOANNES ANDREAS AURIA patri Neptuno similis, munere, mente, manu. - Roma, Palazzo Doria-Pamphilj. - Foto Arti Doria (si desume da: Vilma Borghesi (a cura di), Vita del principe Andrea Doria, scritta da lui medesimo, Genova, 1997, Barboni editore - Compagnia dei Librai, /ultima Tav. ).

Per le immagini degli interni della Villa Doria in Pegli: Courtesy Istituzione Musei del Mare e della Navigazione - Museo Navale di Pegli - Genova. Si ringrazia la Direzione di: Mu.MA - Istituzione Musei del Mare e della Navigazione - Comune di Genova. In particolar modo la Curatrice del Museo Navale di Pegli. (Autorizzazione 19 luglio 2011).

Euripide, Alcesti.
- Trailer dello spettacolo itinerante rappresentato presso il liceo Classico padre Alberto Guglielmotti di Civitavecchia, per la regia di Ettore Falzetti.
/ Caricato su Youtube da  in data 28/apr/2010).










Klaus Nomi, Esperienza della Morte,
su testo di Reiner Maria Rilke.
 Caricato da  in data 28/gen/2007).
Klaus Sperber
(Immenstadt, 24 gennaio 1944 – New York, 6 agosto 1983),
nome d'arte:
Klaus Nomi, 
cantante tedesco di musica pop/Synthpop, esibitosi quasi sempre come contraltista.


ADDENDA





ADDENDA I



Giovanni Andrea era nipote, per parte materna, di: CENTURIONE Adamo:


CENTURIONE, Adamo
Dizionario Biografico degli Italiani
di G. Nuti

CENTURIONE, Adamo. - Figlio di Luciano e di Clara Di Negro, nacque a Genova in data imprecisabile

del sec. XV. Apparteneva ad un ramo dell'"albergo" Centurione, quello degli Oltramarini, attivissimo nel

commercio con la Spagna. Egli stesso fu grande mercante, importatore di seta trafficata tra Genova e

Lione, dove spesso lo troviamo in rapporti di affari con le più importanti ditte agenti su quella piazza. Fu

con ogni probabilità il primo genovese a stabilire contatti finanziari col giovane Carlo d'Asburgo, del quale

doveva diventare uno dei principali fornitori di capitali, accanto alle grandi banche tedesche dei Fugger e

dei Welser. Nel 1519 si trovava come console genovese a Messina, insieme con Visconte Cattaneo. Già da

tempo doveva essere iniziata la sua amicizia con Andrea Doria: il C., infatti, militava nel partito dei Fregoso,

appoggiato dalla Francia, al cui servizio si trovava in questo periodo l'ammiraglio. Caduta Genova sotto il

dominio spagnolo nel 1522, il C. dovette adoperarsi perché la città tornasse sotto il controllo francese, cosa

che avverrà cinque anni dopo grazie al decisivo apporto del Doria. Il governo di Teodoro Trivulzio, tuttavia,

scontentò gli stessi genovesi vicini al re Francesco I: la situazione economica si aggravò, i diritti e i privilegi

della città vennero violati, proprio mentre i legami finanziari tra le famiglie dei banchieri genovesi,

compresa quella del C., e l'Impero asburgico diventavano sempre più stretti. Questi fattori contribuirono

non poco al clamoroso passaggio del Doria dal campo francese a quello di Carlo V e al vittorioso attacco

del 12 sett. 1528 contro Genova, che segnerà l'inizio del governo di Andrea in città.

Vent'anni dopo, in una lettera al padre, il principe Filippo, elencando le pressioni fatte sul C. per indurlo ad

accettare il progetto di una fortezza a Genova, esponeva le preoccupazioni dell'ambasciatore Figueroa che

in tal modo si sarebbe spinto il C. a passare nel campo avversario, come egli avrebbe già fatto nel 1528

"porque quando Cesare Trivulçio tenia aquella ciudad por los françeses, siendo el maior amigo que tenia,

[il C.] fué el primero que le engaño y se puso contra el, y trabajó que fuesse echado de la ciudad"

(Documentiispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, p. 256). In realtà, la sua decisione di passare al

campo spagnolo era stata particolarmente favorita dalle condizioni che la convenzione di Madrid,

sottoscritta dal Doria, aveva creato per i Genovesi, i quali ottennero piena libertà di commercio in tutti gli

Stati asburgici e parità di diritti con gli stessi Spagnoli. Se sino a quell'anno, inoltre, i banchieri genovesi

avevano avuto un posto secondario rispetto ai Fugger e ai Welser nei finanziamenti al Tesoro imperiale, ora

il loro ruolo tendeva a diventare sempre più importante.

L'ambasciatore spagnolo a Genova, Gomez Soarez de Figueroa, divenne l'interlocutore principale dei grandi

banchieri tra i quali spicca il C. che, vero "ministro delle finanze" del Doria, dovette intervenire con vari

prestiti per sanare in parte il deficit imperiale, compreso quello dei possedimenti italiani.

Al riguardo, il Casoni riporta il seguente aneddoto: nel 1541, passando Carlo per Genova e avendo un suo

ministro riferito al C. che l'imperatore aveva bisogno di 200.000 scudi per finanziare la spedizione contro

Algeri, egli rispose che glieli avrebbe versati immediatamente nella moneta preferita. Avendo poi fatto

consegnare la somma al tesoriere imperiale, il C. si recò di persona da Carlo per rimettergli una cedola nella

quale affermava di essere stato soddisfatto dall'imperatore, il quale, commosso da tale dimostrazione di

affetto, fece bruciare la carta. Come nota l'Ehrenberg, aneddoti simili sono riferiti, però, anche ad Anton

Fugger e ad altri banchieri; essi indicano, comunque, quale peso la figura del C. stesse acquistando nei

rapporti con Carlo.

L'imperatore, del resto, ebbe il C. come compagno nelle imprese della Goletta e di Algeri, oltreché nella

campagna di Germania, dove il C. militò sempre a proprie spese, venendo ricambiato con dimostrazioni di

grande cortesia.

Il C., nel frattempo, aveva assunto un ruolo da protagonista nelle vicende genovesi a fianco di Andrea

Doria. Nel 1529, sotto la pressione dell'esercito francese, egli fu tra i diciassette capitani di guerra incaricati

di reprimere eventuali disordini in città. Nel 1535 gli fu affidata una delicata missione in Spagna: doveva

fare presente a Carlo la difficile condizione in cui Genova si sarebbe trovata di fronte alle minacce francesi,

qualora, alla partenza dell'armata, fosse rimasto in città solo un contingente di 330 fanti spagnoli; doveva

poi ottenere aiuti militari e finanziari e opporsi alla decisione di trasferire le fiere a Beçanson, cosa giudicata

"dannosa e di fastidio", chiedendo l'intervento di Carlo perché decidesse onorevolmente per Genova la

vertenza col duca di Savoia. Nel giugno, insieme con il Doria partecipò alla spedizione navale contro il

Barbarossa ed ebbe il compito di impedire che il pirata si rifugiasse in Algeri. Dovette perciò incrociare con

le sue galee davanti a Bona, ma non riuscì ad evitare che il Barbarossa rimettesse in mare alcune navi che

erano state tirate in secco. Della fuga del pirata fu poi accusato il Doria, sospettato di intese con

l'ammiraglio turco. Nel 1539 il C. venne inviato dal Doria a Toledo presso l'imperatore, che si accingeva a

spedire a Genova danari e provvisioni per lo stesso Doria al quale, attraverso il C., veniva ordinato di

salpare verso Castelnuovo assediata dai Turchi; nell'assenza del Doria, al C. toccava il compito di vegliare

sui progetti di restaurazione francese dei quali si mormorava in varie corti.

Nel 1543 il C., che possedeva già il feudo di Masone, acquistava Aulla, Bibola, Gorasco e Monte di Valli da

Girolamo Ambrogio Malaspina, il "Comparino", per 1.200 scudi d'oro, perfezionando il possesso con

l'acquisto dei diritti che su tali luoghi vantavano i fratelli del Malaspina, dietro il versamento di 3700 scudi

d'oro. Ottenne poi l'investitura del feudo da Carlo con diplomi del 28 maggio e 25 ag. 1543.

Recatosi personalmente nel nuovo marchesato, ne confermò le leggi e gli statuti del 1304. Fece inoltre

costruire su una rupe scoscesa la formidabile fortezza Brunella, per controllare le strade che attraverso

Pontremoli e Fivizzano superano l'Appennino. Dal momento che il cenobio di S. Carpasio in Aulla

mancava di monaci, egli ottenne da Paolo III l'assenso onde conferire l'abbazia non a un chierico regolare,

ma ad un secolare, proponendo come abate commendatario il figlio Giacomo, che fu accettato da papa

Giulio III, con bolla del 4 giugno 1550.

Nel 1549, per la rilevante somma di 800.000 pezzi da otto reali il C. acquistò il marchesato di Estepa e

Pedrera in Spagna. In effetti la sua potenza finanziaria e politica era assai cresciuta.

Nel 1538 aveva prestato in una sola volta a Cosimo I de' Medici ben 200.000 scudi d'oro per sopperire ad

un debito di 800.000 ducati contratto dal duca; nel 1552 prestò 50.000 scudi all'imperatore senza interessi.

La separazione dell'Impero dalla Corona spagnola (1556), che aveva causato la diminuzione dell'influenza

dei banchieri tedeschi in Spagna, e inoltre la grave crisi finanziaria che colpì la monarchia asburgica nel

1557-1559 contribuirono a rendere sempre più pesante il controllo dei banchieri genovesi, e in particolar

modo del C., sulle finanze di Filippo II. Nel 1558, attraverso suoi agenti tra i quali Luciano Centurione, il

C. fornì due partite rispettivamente di 200.000 e 600.000 ducati, la prima in Fiandra da pagarsi in venti

giorni e la seconda da pagarsi in sei mesi.

Contemporaneamente, a Genova la ormai avanzata età del Doria e l'influenza che sull'ammiraglio il C.

continuava ad esercitare fecero sì che egli diventasse il vero protagonista nelle difficili vicende che

travagliarono la Repubblica in questi anni. Tale preminenza trova anche riscontro nel matrimonio di

Giannettino Doria, nipote di Andrea e destinato a raccoglierne l'eredità politica, con la figlia del C., Ginetta,

dotata con ben 60.000 scudi d'oro. Nel 1547 il C. ebbe un ruolo preminente nella repressione del tentativo

insurrezionale di Gian Luigi Fieschi, durante il quale fu ucciso Giannettino Doria. Fu lo stesso C. a mettere

in salvo Andrea Doria, prima a Voltri e poi nel feudo di Masone. Dopo la sconfitta dei Fieschi, il C.

provvide a mettere ordine tra le galee del Doria, abbandonate dai galeotti e saccheggiate dal popolo,

diventandone il comandante e guidandole nel luglio a Napoli per domare l'insurrezione della città. Sempre

al C. fu affidato il piccolo Gian Andrea, figlio di Giannettino e di Ginetta, nuovo erede di Andrea. La

congiura del Fieschi spinse la Spagna ad insistere in un suo progetto da tempo accarezzato: costruire una

fortezza in città, in modo da impedire altri tentativi francesi, ma anche in modo da controllare più

pesantemente la Repubblica. Iniziò, così, una lunga ed estenuante trattativa che ebbe come protagonisti da

una parte il Doria e il C., e dall'altra il Figueroa, ambasciatore spagnolo a Genova, e il governatore di

Milano, Ferrante Gonzaga, che tale progetto aveva particolarmente a cuore.

Nel primo sbandamento seguito alla congiura del Fieschi, sembrò che sia il Doria sia il C.

accondiscendessero a tale proposta, ma, passato tale momento di incertezza, i due rifiutarono di accettare il

progetto. Il C. stesso comunicò al Figueroa che la volontà del Doria era di mantenere sempre la città al

servizio di Carlo V, conservandone tuttavia la libertà: egli lucidamente comprendeva che solo in tal modo

Genova poteva restare nel campo spagnolo, dato che la costruzione della fortezza avrebbe offeso la

cittadinanza e istigato a nuovi colpi di mano il partito francese, che non aveva deposto le sue intenzioni

ostili. Questa posizione fu costantemente seguita dal Doria e dal C. di fronte alle sempre più insistenti

pressioni spagnole. Si cercò di spingere soprattutto il C. ad accondiscendere, anche perché si valutava

esattamente il peso crescente che la sua opinione esercitava sulle decisioni di Andrea, e si cercò inoltre di

far leva sul malcontento che in città serpeggiava per il troppo potere del Centurione. Come scriveva il

Figueroa a Carlo V, a Genova si temeva che egli meditasse di afferrare "toda la auctoridad, en enseñorarse

del principe Doria" (Documentiispano-genovesi..., p. 178), benché il suo prestigio personale fosse molto

minore di quello goduto dal vecchio ammiraglio. Tali affermazioni nascondevano il proposito di scollare la

salda amicizia tra i due, contrapponendo il primo al secondo, ma tale manovra fallì, dal momento che, come

ammetteva lo stesso Figueroa, "el Principe no se ha de resolver en ninguna cosa sin comunicallo con el"

(ibid., p. 288). La questione della fortezza si ripropose in tutta la sua gravità l'anno seguente. Il tentativo

compiuto dal march. Giulio Cibo con l'aiuto di esuli genovesi incontrati a Roma e a Venezia sotto la

protezione francese - i congiurati si riproponevano di sopprimere il Doria e il C. -, fallì sul nascere. Giunto a

Pontremoli, il Cibo venne arrestato il 22 genn. 1548, condotto a Milano e decapitato il 18 maggio. Fu il

Gonzaga a prendere pretesto da questa congiura per risollevare la questione della fortezza, inviando a

Genova a tale scopo Sigismondo Fransino, ma sia il Doria che il C. opposero un altro netto rifiuto. Il C.

decise allora di chiarire l'opinione del Doria con un viaggio presso l'imperatore. Dapprima, a Milano, spiegò

al Gonzaga che nessuno si era opposto alla sua decisione, ma che si temeva che la costruzione della

fortezza avrebbe finito col suscitare malumore in città, ottenendo l'effetto opposto a quello per cui se ne

caldeggiava il progetto. Il Gonzaga informò subito Carlo V dell'incontro, esortando l'imperatore ad

intervenire di persona per convincere il C. ad "anteporre il suo particolare in questi due modi: il primo la

sicurezza della casa, persona e facoltà sua; il secondo l'altezza a che sale, perché con questo mezzo si fa il

primo huomo di quella città, e puoco meno che Signore" (ibid., p. 237). Il C. incontrò ad Augusta Carlo V

che preferì accettare almeno per il momento le giustificazioni da lui addotte e rimandare la questione ad

occasione più opportuna. Questa si presentò con la visita del principe Filippo a Genova, sullo scorcio del

1548.Dapprima, Filippo organizzò un incontro tra il duca d'Alba, il Figueroa, il Gonzaga e il Doria, che si

dichiarò, tuttavia, in termini energici contro la fortezza. Al duca d'Alba toccò, allora, il compito di far

pressioni sul C. con la promessa di favori per sé e per la sua casa; ma egli non si lasciò convincere e

insistette sulle controproposte genovesi, consistenti in un aumento della guarnigione spagnola e in una

riforma di governo che assicurasse il controllo alla corrente spagnola: tale progetto, che il C. aveva avuto

già modo di illustrare a Carlo nel suo viaggio in Germania, portò alla legge del garibetto. Di fronte poi alla

possibilità dell'uso della forza contro di lui e contro i suoi interessi finanziari in Spagna, nel caso che si fosse

ostinato nel suo rifiuto, il C. rispose che avrebbe reagito andandosene dalla città a vivere in altra parte,

"porque - come scriveva Filippo al padre - el tenia su hazienda en tierras de V. M. y avia de vivir in ellas sin

offresçer otra ayuda ni assistensia para ello" (ibid., p. 252). Di fronte alle concessioni che il Doria si diceva

avesse fatto circa il progetto della fortezza, il C. osservava che il Doria conosceva assai poco le condizioni

di Genova, dal momento che si era preoccupato solo di questioni militari, lasciando a lui la cura delle civili.

Il soggiorno di Filippo si concluse, dunque, con un insuccesso: il problema della fortezza venne

accantonato in attesa della morte del Doria e si decise di ostacolare iniziative che avessero in pratica

favorito il prestigio e il potere del C., ritenuto da tutti come il più probabile successore del Doria. Dei resto,

lo stesso figlio del C., Marco, comandava allora la flotta genovese e si temeva che irritando troppo il padre

si sarebbero spinti entrambi ad impadronirsi di Genova.Superato questo difficile momento, i rapporti tra la

Repubblica e la Spagna si normalizzarono e Genova si trovò a dover affrontare la gravissima questione

della Corsica, dove l'insurrezione di Sampiero aveva messo in difficoltà il suo dominio; il C. accompagnò il

Doria nella sua campagna militare nell'isola e, caduta San Fiorenzo il 27 febbr. 1554, venne inviato

all'assedio di Calvi. Nel frattempo, dovette intervenire presso il Doria perché revocasse la confisca dei beni

dei ribelli sconfitti a San Fiorenzo, atto che aveva danneggiato gli interessi della Casa di S. Giorgio. Il C.

insistette anche perché contingenti spagnoli venissero inviati nell'isola, provvedendo di persona al loro

soldo. La morte di Sampiero non pose termine all'insurrezione, di modo che si giunse al punto di

prospettare nel 1567 la cessione della Corsica alla Spagna: fu il C. a parlare di tale progetto al Figueroa, il

quale tuttavia non accettò la proposta, che venne lasciata cadere.

Nel frattempo il C. continuava a contribuire alle spese militari di Filippo II al quale nel 1565 prestava

56.000 scudi di oro che il re richiedeva per poter fortificare La Goletta. Gli ultimi anni della sua vita furono

addolorati dalla prematura morte del primogenito Marco nel 1565. Chiamato ancora una volta a far parte

del Maggior Consiglio della Repubblica nel 1567, egli morì a Genova l'anno seguente.

Aveva sposato Orietta figlia di Marco Grimaldi, dalla quale ebbe tre figli: Marco, Ginetta e Giacomo.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, Litterarum, f.2/1959, mss. Fransone, n. 653, cc.

1756 ss.; I. Bonfadio, Annali delle cose dei Genovesi dall'anno 1528 all'anno 1550, Capolago 1836, pp. 43,

95, 158 s., 164 s.; Docc. Ispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, in Atti della Soc. ligure di st. patr.,

VIII(1868), pp. 15-288 passim; Colección de docum. inéd. para la historia de España, XCVII,Madrid

1890, pp. 347, 350 s.; Nuntiaturberichte aus Deutschland …, IV, Gotha 1893, p. 38; X, Berlin 1907, pp.

370, 390; Il libro dei ricordi della famiglia Cybo, a cura di L. Staffetti, in Atti della Soc. ligure di storia

patria, XXXVIII (1908), pp. 328, 350, 495; Istruzioni e relaz. degli ambasciatori genovesi, a cura di R.

Ciasca, I, Roma 1951, pp. 133-135, 143; III, ibid. 1955, pp. 71 s.; Nunziature di Venezia, a cura di F.

Gaeta, II, Roma 1960, p. 239; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, II,Genova 1799-1800, pp.

139, 158, 178, 183-185, 234, 244-251; Dict. de la noblesse, IV,Paris 1864, col. gio; L. T. Belgrano, rec. a

F. D. Guerrazzi, Della vita di Andrea Doria, in Arch. stor. ital., s. 3, IV(1866), parte I, pp. 262, 267; M.

Spinola, Considerazioni su vari giudizi di alcuni recenti scrittori riguardanti la storia di Genova, in Atti della

Soc. ligure di storia patria, IV(1866), pp. 326, 349, 370 s., 374; Id., Relazione sui documenti genovesi

dell'Archivio di Simancas, ibid.,VIII (1868), pp. 268, 371, 381-390, 392-396; G. De Leva, Storia

documentata di Carlo V in correlazione all'Italia, IV,Venezia 1881, pp. 238, 242, 246, 350, 353; V,

Bologna 1894, p. 325; E. Branchi, Storia della Lunigiana feudale, II,Pistoia 1897, pp. 249, 258, 264, 297

-302; A. Neri, A. d'Oria e la corte di Mantova, Genova 1898, pp. 100 s.; C. Manfroni, Storia della marina

italiana …, Roma 1897, pp. 314, 366-368, 389, 407; F. Donaver, La storia della Repubblica di Genova,

II,Genova 1913, pp. 195-197, 217, 220 s.; L. Romier, Les origines polit. des guerres de religion, I,Paris

1913, p. 486; L. M. Levati, I dogi biennali di Genova dal 1528 al 1669, I,Genova 1930, pp. 75, 82, 254; V.

Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LXIII

(1934), pp. 160, 246; Id., Congiure del Rinascimento e congiure genovesi, in Bollettino ligustico per la

storia e la cultura regionale, III(1951), p. 101; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di

Filippo II, Torino 1953, II, pp. 925, 1160, 1203; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, I,Genova 1955,

pp. 212-214; F. Chabod, Lo Stato di Milano nella prima metà del sec. XVI, Roma 1955, p. 114; R.

Ehrenberg, Le siècle des Fugger, Paris 1955, pp. 77, 160, 167 s.; D. Gioffrè, Gênes et les foires de change.

De Lyon à Besançon, Paris 1960, pp. 86, 118, 216, 231 s., 235, 244; R. Emmanuelli, Gênes et l'Espagne

dans 1a guerre de Corse (1559-1569), Paris 1964, pp. 34, 210, 308, 412; R. Carande, Carlos V y sus




Giovanni Andrea era figlio di Giannettino Doria e di Ginetta Centurione.

CENTURIONE Ginetta, figlia di Adamo: -- Notizie in corso.




DORIA, Andrea
Dizionario Biografico degli Italiani

di E. Grendi

DORIA, Andrea. - Nacque a Oneglia il 30 nov. 1466. Il casato era illustre, ma distintamente feudale, di

mediocrissima fortuna.

Il padre Ceva aveva sposato Caracosa dei Doria di Dolceacqua. Indubbiamente le acquisizioni territoriali

dei Doria non avevano avuto la rilevanza di quelle dei Fieschi e degli Spinola di Luccoli che gestivano

centri appenninici di grande rilevanza strategica: nulla sappiamo dell'effettiva coesione del gentilizio (Doria

di S. Matteo e Doria dei feudi) che si era consolidato all'inizio del Trecento e aveva formato "albergo"

unificando i blasoni. C'era una forte tradizione del casato nell'armamento navale militare (Meloria, Curzola,

Tenedo) ma non fu questa la strada che si offerse al giovane D., e neppure la tonsura o la mercatura. I

"feudali" erano del resto i parenti poveri, né probabilmente erano forti le ragioni della colleganza come nel

caso dei Fieschi, già alla testa di un forte Stato territoriale con forti posizioni nella Curia romana:

un'influenza in declino eppur in grado di organizzare nella splendida dimora di via Lata un centro di vita

cosmopolita che sarà unico nella Genova del primo Cinquecento. Gli stessi Grimaldi, corsari a Monaco,

erano pienamente inseriti nella vita economica europea tramite il controllo delle allumerie di Tolfa. Ed è a

questa Roma dei Fieschi e dei Grimaldi che approda il D. nel 1484, orfano diciottenne e senza titolo

giacché la madre prima di morire ha ceduto i suoi "carati" del feudo onegliese al cugino Gian Domenico.

Gian Domenico, tramite i buoni uffici dei Cibo (Innocenzo VIII), imparentati coi Doria, e di Nicolò Doria,

capitano al servizio del papa, riuscì a ottenere per il D. un posto in quel corpo militare.

Succeduto al pontificato Alessandro VI (1492), il D. "fu costretto a pigliar nuovi partiti ai casi suoi"

(Sigonio): fu a Urbino presso Guidubaldo (e non Federico, come scrive il non sempre esatto Sigonio) da

Montefeltro e poi a Napoli, dove gli fu data "una piazza d'uomini d'arme". Liberato dagli incarichi per la

fuga di re Alfonso dinnanzi a Carlo VIII (1495), il D., dopo un viaggio in Terrasanta, si presentò con 26

balestrieri a cavallo pagati per tre mesi a Giovanni Della Rovere, prefetto dell'Urbe, che gli assegnò la difesa

di Rocca Guglielma presso il Liri, contro le milizie spagnole di Gonzalo Fernandez de Cordoba.

Qui la narrazione del Sigonio assume un colore cavalleresco: la valorosa difesa, l'ammirazione e lo scambio

di cortesie con Gonzalo, la fedeltà ai Della Rovere che lo mandarono in missione presso Luigi XII di

Francia. Tutore del figlio e protettore della vedova del Della Rovere, il D. sarebbe riuscito a giocare

d'astuzia lo stesso duca Valentino a Senigallia e a sventare i piani di Giuliano Della Rovere (poi Giulio II)

che ambiva impossessarsi dei castelli del fratello defunto.

Ancora privo di mezzi, il D. accettò l'invito del Banco di S. Giorgio e si arruolò nella condotta di Nicolò

Doria contro Ranuccio Della Rocca, ribelle in Corsica. Nel 1507, mettendo a frutto il nuovo favore dei

nobili genovesi (esiliati durante il dogato popolare di Paolo da Novi) cui fu prodigo di efficaci consigli, il D.

ebbe una condotta per sé contro lo stesso Ranuccio: con 200 fanti e 40 cavalieri invase lo Stato dei Della

Rocca, bruciò, imprigionò e uccise, sicché Ranuccio, appoggiato dalla Francia, si salvò solo attraverso un

salvacondotto rilasciatogli dal Banco. Fondamentale fu questa saldatura con interessi genovesi che lo portò

ad allearsi coi Fregoso e, forse per la mediazione di Nicolò tornato a comandare le truppe papali, con la

politica della Lega santa di Giulio II. Era del resto la politica dei Doria alleati dei Fregoso e avversi ai

Francesi: partecipò così alla spedizione del Contarini contro Genova e con Giano Fregoso rimise piede in

città nel giugno 1512, prese parte all'assedio del Castelletto e nell'ottobre assunse l'incarico dell'allestimento

di due galere.

Il 6 marzo 1513, seguendo ancora una volta Nicolò Doria, che, dimesso da Roma, aveva assunto il

comando di una flotta genovese a tutela della navigazione, entrò al servizio della Repubblica come capitano

delle due galere da lui fatte costruire. Ferito nell'azione guidata da Emanuele Cavallo per impedìre che la

fortezza della Lanterna, tenuta dai Francesi, fosse adeguatamente approvvigionata, riprese il mare dopo un

mese: 950 lire al mese per ciascuna delle galere (una metà dello stipendio da riscuotere a sue spese per una

tassa posta sulle Riviere protette dalle sue navi), onere suo il provvedersi di salnitri e palle di cannone,

regolata la spartizione del bottino di guerra.

Fu il peggior contratto che avesse mai firmato e dovette esibire i suoi garanti. Dopo che Adorno, Fieschi e

Francesi ebbero rioccupato temporaneamente Genova, il 17 giugno tornarono i Fregoso che con Ottaviano

tennero la città fino al sacco del 1522 perpetrato dall'alleanza ispano-pontificia che restituì il dogato agli

Adorno. Nel frattempo Ottaviano aveva clamorosamente invertito le alleanze ed era divenuto governatore

per il re di Francia.

La strategia dei Fregoso concedeva ampio spazio all'iniziativa navale e non solo per difendersi dai

tradizionali nemici, ma anche per contrastare l'intensificata presenza turco-barbaresca nel Mediterraneo.

Sotto il comando di Federico Fregoso, il D. aveva preso parte alla spedizione di Biserta contro il pirata

Cotorgoli: poi, sempre nel 1516, proprietario di tre galere, aveva firmato un contratto con Ottaviano che gli

riconosceva i pieni frutti della guerra di corsa. Ed è questa la direzione verso la quale si orientò sempre più

l'attività militare del D. che nel 1519 Poté riportare alla Pianosa una vittoria importante e lucrosa con la

cattura di Gad Alì.

Intanto Khair ad-dīn Barbarossa di Algeri era stato riconosciuto da Selim come luogotenente generale

dell'Impero osmano in Africa e questa saldatura nel Mediterraneo delle forze turco-berbere evidenziava

appieno ai sovrani europei l'importanza fondamentale del potere navale nel quadro delle rivalità italiane.

Sconfitti i Fregoso, il D. offrì i suoi servizi al re di Francia e ai suoi alleati e questa opzione politica durò

fino al 30 giugno 1528, anche nel periodo in cui il D. fu al soldo di Clemente VII (1526-27).

Questo significa che le sue operazioni navali erano in buona parte vincolate a operazioni militari

complessive nell'area mediterranea: in difesa di Marsiglia, contro la flotta imperiale di Ugo de Moncada,

contro Genova, contro Napoli. Ciò non vietava colpi occasionali contro le navi spagnole e barbaresche, ma

implicava una pluralità di comandi e la subordinazione a una direzione superiore. Era un tipico difetto

dell'azione militare cristiana nel Mediterraneo, più spesso azione di forze alleate che occorreva radunare e

conciliare in una difficile unità di obiettivi. Già sotto Francesco I balzarono in chiara luce questi difetti di

coordinamento, motivazioni politiche diverse, difformità di valutazioni militari, materia di contrasto che finì

per compromettere la posizione del D. alla corte di Francia. In particolare la questione del diritto del corsaro

al beneficio del riscatto dei prigionieri fu materia di ampia contestazione: Francesco I esigeva la consegna

dei prigionieri di riguardo e non pagava. Il re aveva scarsa comprensione per il carattere mercantile del

servizio del Doria.

In realtà l'unico scontro navale di un qualche rilievo fu la battaglia di Capo d'Orso (Paestum) nell'aprile

1528, quando otto galere guidate da Filippo (Filippino) Doria sconfissero sei galere del Moncada che fu

ucciso in battaglia. La vittoria tuttavia non ebbe conseguenze politiche: Napoli fu salva e per le diffidenze

dei Veneziani e per il disimpegno del Doria che aveva preferito rimanere a Genova, riconquistata ai

Francesi nell'agosto 1527.

Fin dal 1525 Carlo V aveva cercato di stornare il D. dall'alleanza antimperiale. Il cancelliere M. Arborio

marchese di Gattinara fu tenace assertore di questa esigenza politico-militare presso l'imperatore: il D. e

Genova erano elementi decisivi nel rapporto di forza militare. Il mare in mano ai Francesi comprometteva

gli approvvigionamenti spagnolì. Francesco I aveva nominato il D. suo luogotenente nel Mediterraneo e lo

aveva insignito dei cavalierato di S. Michele. Rimanevano però antiche e nuove pendenze: i crediti del D.,

la questione di Savona, l'opposizione all'"Unione" cittadina secondo il programma dei Dodici riformatori,

pur particolarmente attivi sotto il governatore T. Trivulzio. Fu proprio la prontezza imperiale a sciogliere

questi nodi che indusse il D. ad accantonare gli ultimi dubbi. Così come dal punto di vista del D., anche dal

punto di vista imperiale l'opzione dell'ammiraglio era vista come omologa dell'opzione di Genova.

La carriera del D. segui davvicino quella di Nicolò Doria ed entrambe si iscrivono nell'ambito di influenza

della politica pontificia: Ottaviano Fregoso era un protetto di Leone X. E tuttavia decisivi per le fortune del

D. furono i contatti presi con gruppi politici genovesi a partire dal 1506: furono questi con qualche

importante appoggio economico che gli aprirono la carriera del mare. L'opzione per questo tipo di

imprenditoria militare aveva certamente delle motivazioni mercantili (guerra di corsa, stipendi). Tuttavia,

almeno fin dalla missione presso Luigi XII del 507, il D. coltivò tenacemente il proprio ruolo politico: la

scelta della dimora a Fassolo fu compiuta già nel 1521 quando non aveva che quattro galere. Per quanto

avesse reclutato persone del casato, vi è qualche testimonianza che il voltafaccia del '28 avesse causato in

esso dei malumori: i Fregoso rimanevano esiliati e ostili alla Repubblica "ispanizzata". E tuttavia la

risoluzione del 1528 aveva segnato il pieno sequestro "personale" del mito antico dell'"Unione" ravvivato

come non mai dall'opera dei "riformatori".

La gestazione della riforma costituzionale del 1528 è ancora avvolta in molte oscurità, cosi come in

generale il quadro sociopolitico urbano fra Quattro e Cinquecento. La "rivolta delle capette" - il dogato del

tintore Paolo da Novi (1506) - può esser letta come l'anticlimax della serrata del '28 e della nuova

costituzione aristocratica. Tuttavia il quadro da dipanare e ben altrimenti ricco. Fin dagli ultimi decenni del

Quattrocento ci sono ampie testimonianze di un movimento di giovani, associati fuori della solidarietà degli

"alberghi", che esprimono nel titolo delle loro società l'aspirazione alla unione e alla concordia, proprio

mentre enfatizzano la concorrenza cerimoniale fra nobili e popolari compartecipi del governo genovese.

Sono poi molto probabili i legami della compagnia dei giovani del Divino Amore, radicalmente novatrice

della carità nei primi decenni del Cinquecento, con gli ambienti umanistici in cui si fece strada, attorno a

Ottaviano Fregoso, il progetto della Riforma. Il D., che non era certo un umanista, non fece che secondare

un progetto lungamente in gestazione, dandogli lo sbocco della indipendenza.

Enorme dovette essere il prestigio derivante dalla realizzazione di quel lungo mito dell'Unione secolarmente

frustrato nella città divisa. L'"Unione" fu un'operazione politica conservatrice: non una restaurazione del

Comune originario gestito in forma senatoria dai maggiorenti, ma una Repubblica aristocratica che definiva

una volta per tutte i quadri della civilitas come l'insieme delle famiglie di coloro, di parte nobile e popolare,

che avessero ricoperto le cariche politiche maggiori prima del 1506. Nasceva così la moderna nobiltà

genovese col suo "Libro d'oro", una nobiltà caratteristicamente "politica", proclamata classe con diritto

esclusivo alle cariche repubblicane. Si trattava di un sottile ricalco della costituzione politica del Banco di S.

Giorgio ove la selezione e le differenziazioni erano fra luoghisti comunque e classi di luoghisti, cioè di

detentori dei titoli del debito pubblico.

La soluzione istituzionale seguiva una logica appropriata: incremento delle strutture rappresentative (i

Consigli) con funzioni elettive, consultive e talora anche deliberative; collegializzazione del potere del doge

fatto pari ai senatori affiancati dai procuratori: i serenissimi Collegi; istituzione di una suprema magistratura

di controllo, i Supremi sindacatori, il cui sindacato era a sua volta giudicato dal Consiglio minore. Ed è qui

che il D. scelse di collocarsi nel 1528 come membro a vita del Collegio dei supremi sindacatori: con lui

Sinibaldo Fieschi e altri tre nobili "vecchi", certamente non "a vita". La scelta è significativa come scelta

d'intenzione. In ogni caso più dei fattori e dei ruoli istituzionali continuarono a contare quelli personali. La

presenza di un tradizionale avversario come il Fieschi testimonia dell'unanimismo di facciata del 1528, ma

in effetti è necessario rintracciare la formazione e la presenza di un "partito del Doria". La formidabile

posizione dell'ammiraglio e l'indipendenza formale del governo comportavano un certo dualismo: la

Repubblica e il luogotenente imperiale ci appaiono come due corpi politici diversi e in ogni caso due centri

distinti di iniziativa politico-diplomatica.

Ma l'asimmetria era netta e qualificata dal ruolo di mediazione esclusiva fra la Repubblica e l'Impero che

l'asiento del 1528 riconosceva all'ammiraglio. Materia del contratto infatti non erano soltanto questioni di

stipendi, di assicurazione sulla regolarità bimestrale dei pagamenti, del placet imperiale alla guerra di corsa,

ma anche il riconoscimento della preminenza genovese su Savona e dell'indipendenza della Repubblica

sotto la sovranità nominale dell'imperatore. Successivamente il D. otteneva il titolo di capitano generale

dell'armata imperiale marittima (26 agosto) e, latore il nuovo ambasciatore G. Suárez de Figueroa, garanzie

sull'approvvigionamento granario dalla Sicilia (per le galee e la città) e il riconoscimento di un ruolo di

mediazione per gli asiento de dineros che Carlo V avrebbe negoziato con gli uomini di negozio genovesi. Il

D. era così posto nella condizione magnanima e prestigiosa di offrire la libertà alla Repubblica sostanziando

questo atto con la demolizione della fortezza del Casteltetto, simbolo del dominio straniero. I primi capitoli

dell'asiento del1528 guidano l'iniziativa diplomatica genovese, i temi della libertà e dell'indipendenza della

Repubblica ne sono la base ispiratrice, integrata più tardi dal tema classico della neutralità.

Questo consenti ai Collegi di presentarsi su tale piano sia pure formale come liberi dal riferimento troppo

ovvio alla personalità dominante dell'asientista che del resto non era giuridicamente riconosciuta come tale.

Le preoccupazioni dello Stato mercantile (non compromettere gli interessi esteri), la stessa formula di darsi

in signoria personale a un principe straniero, soluzioni di difesa e di compromesso, si evolvevano in

programma politico-diplomatico di una personalità statuale autonoma che vedeva riconosciuto il suo rango

negli accordi internazionali. Mito diplomatico? E possibile: ma questo è appunto il livello operativo del

gioco politico, quello delle formulazioni giuridiche. L'interlocutore non può appellarsi alla sostanza delle

cose e la sostanza non v'è dubbio era quella di un governo strettamente condizionato dalla volontà del D.

che agiva d'accordo con lui e che, lui assente, era tenuto a inviargli circostanziate relazioni. L'asimmetria

risulta evidente sul terreno cerimoniale. Non v'è dubbio che il cerimoniale privato e quindi il prestigio del

principe era clamorosamente esaltato dalla sua preminenza nei rapporti con la corte e i governatori

spagnoli, ricevuti sistematicamente nel palazzo di Fassolo. Da questo punto di vista il D. non faceva che

portare a compimento, esemplificare nel modo più brillante e assoluto, una costante della storia politica

genovese: quella di una tradizione di cerimoniale privato in concorrenza vittoriosa con lo sviluppo,

promosso e insieme bloccato, di un cerimoniale pubblico.

Il segno più vistoso della supremazia doriana è da individuare nelle vicende del palazzo di Fassolo, un sito

già scelto nel 1521 e la prima fase dei lavori conclusa già nel 1529. Il palazzo doveva crescere per un

secolo: moltiplicarsi le fabbriche, i porticati, gli affreschi, le decorazioni, i giardini. Il corsaro poteva

secondare i suoi gusti, formatisi nella giovinezza romana: come i Gonzaga avevano chiamato a Mantova

Giulio Romano, egli chiamò Pietro Buonaccorsi (Perin del Vaga), anch'egli un discepolo di Raffaello, che

lavorò a Fassolo fra il 1528 e il '36. Non vi fu unità organica nella costruzione architettonica: da un'iniziale

massa squadrata, quasi di fortezza, si sviluppò - tramite espansione della linea orizzontale in armonia con lo

spazio e la natura circostante - la villa cinquecentesca d'ispirazione rinascimentale.

Così il D. offriva un modello nuovo alla classe dirigente genovese: l'immagine di un reggente illuminato e

umanista che s'adoperava a trasformare il cantiere di Fassolo in un'occasione culturale internazionale

rompendo decisamente con gli schemi tradizionali della conimittenza genovese. Il contraltare era il palazzo

Fieschi di via Lata, anch'esso dotato di accesso al mare. Ma la decorazione di Fassolo esprimeva

decisamente nella figurazione mitologico-storica l'incomparabile posizione di potere e prestigio del residente

e, nello stesso linguaggio artistico, la dimensione internazionale della corte doriana che ospitò Carlo V

(1533), Paolo III, e il futuro Filippo II (1548): principi, generali, ambasciatori e artisti di fama europea.

Fu un episodio unico nella storia di Genova, quello di una dimora regale, di una corte internazionale,

espressioni del ruolo eccezionale del principe, signore di Genova e luogotenente di Carlo V. Il linguaggio

pittorico e decorativo ne esprimeva il programma politico con la caratteristica enfasi retorica della

celebrazione di un apogeo, i trionfi del D. e di Carlo V posti sul medesimo piano. In particolare l'iconografia

del Doria-Nettuno si affermava in Genova e fuori Genova ora nell'accentuazione mitologica, ora in quella

realistica, a seconda delle esigenze.

Non v'è dubbio che la società genovese, nobile e popolare, recepisse questo messaggio. Il prestigio

personale era chiaramente un instrumentum regni e il D. ne aveva coscienza.

Egli prendeva cura di ospitare alla sua corte i nobili genovesi, a cominciare dai figli di Sinibaldo Fieschi.

Conviti, intrattenimenti musicali, giostre e tornei, gioco della palla: il rampollo della nobile casata genovese

poteva aver la ventura di conversare con i principi d'Italia e dell'Impero, di giocare a palla col marchese di

Pescara, gran generale di Carlo V. Naturalmente il vecchio ammiraglio si costruì anche la famiglia che non

aveva, giacché il suo matrimonio con Peretta De Mari (Usodimare), vedova Del Carretto, era rimasto

sterile. Ma non mancavano i figli di primo letto di Peretta: il D. adottò Marc'Antonio, nominato nel '34

erede del principato di Melfi e andato sposo alla figlia di don Giovanni de Leyva. Nominò poi suo

luogotenente imperiale, ed erede, Giannettino Doria, figlio di Tomaso, suo cugino di primo grado.

La serie degli onori e dei titoli aumentava continuamente: cavaliere di S. Michele, principe di Melfi (con

rendita di 3.000 scudi), cavaliere del Toson d'oro, duca di Tursi, protonotaro di Napoli. Si aggiungano le

prestigiose relazioni personali: non mancavano davvero le possibilità per l'esercizio di un efficace patronato.

La straordinaria ascesa sociale e politica dei Barbarossa e dei Dragut è stata posta in connessione con le

fortune della pirateria, la pirateria "mondo americano" come ha scritto Braudel. Il "norne" chiaramente

distingueva il D. da quegli ammiragli barbareschi e quel nome fu certamente un prezioso strumento politico

per l'inserimento nei quadri della vecchia nobiltà genovese. In ogni caso del tutto eccezionale fu la fortuna

che gli concesse d'imporsi su quell'aristocrazia avviata verso uno strepitoso ruolo di egemonia sulla finanza

europea e pronta a prender ispirazione da Fassolo nella splendida vicenda architettonica di strada Nuova.

A Fassolo i segni della eccezionalità, l'isolamento e il fasto si sposavano con l'ubicazione strategica, lontano

dalle risse cittadine, vicino alle sue galere. Figueroa, il maggior conoscitore spagnolo delle cose di Genova,

poteva ancora sostenere nel 1559 che il comando delle galere rappresentava la chiave di volta della

situazione politica genovese. Indubbiamente questa era stata l'intuizione fondamentale del Doria. E

nondimeno quello stuolo di galere doveva esser redditizio: la crescita delle entrate era necessaria a sostenere

il carisma.

Accanto al D. spicca la figura di uno straordinario mercante e banchiere, Adamo Centurione, che appare

come l'attento gestore degli affari del D.: un'impresa quella dell'asientode galeras che richiedeva spese

ingenti, anticipazioni di danaro, sollecitazioni e trasferimenti dei pagamenti. Verso il 1540-50 Francesco

Lomellini e i suoi fratelli appaiono come gli abituali fornitori di biscotto per le galere, Francesco Grimaldi

fornitore di tela e carne, ma Adamo deve firmare tutte le cedole relative.

In un'occasione almeno fu inviato a discutere con l'imperatore i termini del nuovo contratto di asiento.

Sitrattava di un'azienda come un'altra e non v'è dubbio che il D. la considerasse come tale: il D. come altri

suoi contemporanei "ammiragli", un Barbarossa, un Paolo Vettori, uno Strozzi. Come ogni altro mestiere

poi questo dell'imprenditore di guerra comportava una logica, le regole di un gioco, un gioco singolare fra

corsa e guerra, della cui natura il D. era perfettamente consapevole.

Le entrate, cioè i pagamenti di Carlo V, erano stabilite come anticipi, ma a rate brevi e certamente non

corrispondenti alla dinamica della spesa. A probabile che l'imperatore assegnasse carattere di priorità a

questi pagamenti: le difficoltà per il D. erano piuttosto quelle poste dalle esportazioni di numerario dalla

Spagna. Nel 1552, ad esempio, l'ammiraglio lamentava che dei 123.000 ducati pattuiti egli riusciva a

rimborsarne soltanto 96.170.

La struttura della spesa si articolava nelle voci: corpo della nave, cioè costi dello scafo e dell'armamento coi

relativi tempi di ammortamento, e costi di riparazione e sostituzione più il mantenimento, cioè il soldo

pagato a marinai e "buonavoglia" e il vitto necessario a tutti. Nel caso di impiego di schiavi al remo

l'acquisto degli stessi comportava un massiccio investimento. I rematori potevano comunque esser razziati

o ottenuti come preda di guerra, mentre i forzati potevano esser ottenuti per la benevolenza di qualche

sovrano fin dalla lontana Ungheria.

La galera, lunga e sottile, non più di 3.000 cantari di portata, raccoglieva a bordo 250-300 uomini e più (a

seconda del carico di soldati) in 250 mq: il nucleo prevalente era composto dai rematori disposti a 3 0 4 per

banco per 3 0 4 remi, poi un remo solo col successo, tardo, del sistema "alla galozza". Questi rematori,

150-170, erano sulle galere del D. soprattutto schiavi. A metà secolo uno schiavo poteva valere 40 scudi

per un totale di 6.000 0 7.000 scudi mentre un buonavoglia era pagato 6 lire al mese, cioè 13 scudi all'anno

(7-8 mensilità): 170 costavano così 2.200 scudi all'anno. Bastava quindi che un rematore schiavo vogasse

per tre anni e la preferenzialità economica del suo impiego era assicurata. Inoltre poteva non costare nulla:

per i forzati si raccomandava di non accettarne se non fra i condannati a più di sei anni.

L'incidenza dei costo-nave non era elevata: lo scafo rappresentava il 40-50% di un costo complessivo dato

nel 1552 a 1.600 scudi. Calcoli di poco successivi stimano il rapporto fra costo dell'imbarcazione armata e

costo della ciurma schiava a un terzo verso due terzi: la nostra valutazione abbassa ulteriormente l'incidenza

della prima voce di costo. In ogni caso s'aggiungeva alla seconda voce il pagamento del soldo, per prodieri,

nocchieri, artigiani, "uomini di cavo" e i costi del vitto per tutti sicché il costo del mantenimento era

valutabile a 3.000-3.500 scudi. A metà secolo quindi l'incidenza delle tre voci di costo - armamento, schiavi

e mantenimento - era rispettivamente del 14, 54 e 31%. Ma le prime due voci vanno frazionate nel bilancio

annuale secondo un quoziente dato dal tempo di ammortamento. La galera poteva reggere il mare 4 0 5

anni: calcoliamo così 320 scudi all'anno. Più aleatoria la durata dello schiavo al remo: se calcoliamo una

media di dieci anni avremo 600-700 scudi all'anno. In totale quindi 1.000 scudi, cosicché il costo

prevalente appare nel bilancio annuale quello del matenimento (il 75%). Rispetto a un costo annuo di

4.000-4.500 scudi abbiamo un pagamento che nell'asiento del 1528 si poneva già al di sopra: 5.000 scudi e

non più di 6.000 alla metà del secolo. Il margine era dunque di 1.500 scudi per galera (massimo 2.000). Le

difficoltà di estrarre il numerario dalla Spagna appaiono così decisive per l'equilibrio economico

dell'azienda. Questa era cresciuta rigogliosamente: dodici galere nel 1528, quindici nel 1530, diciassette in

azione a Tunisi nel '35, ventidue nel '38 alla Prevesa e nel '41 ad Algeri, venti nel 1547 e nel '52: diciamo

un "esercito" di 6.000 marinai e rematori, un capitale di 150.000 scudi. Osserviamo che nella Genova della

metà del secolo solo quattro cittadini erano accreditati di una fortuna superiore alle 300.000 lire.

Il "teorico" capitale del D. dava un reddito, sempre teorico, del 20%: un buon investimento si direbbe, ma,

in un'epoca in cui gli operatori economici erano soliti variare i propri investimenti, quello del D. era un

investimento di capitale eccezionalmente univoco e in un settore esposto ai temporali, ai pirati, alle flotte

nemiche e in ogni caso governato dall'esterno, cioè dall'iniziativa politica dell'imperatore.

Quanto tempo gli era lasciato per la favorita guerra di corsa o per qualche prezioso carico di seta e d'argento

da prendere a nolo? Trasporto di soldati, di principi, di sovrani; pattugliamento di coste; azioni contro

corsari; partecipazione ad assedi e imprese militari a grande raggio; lunghe soste nei porti l'inverno o al

riparo di flotte nemiche strapotenti. Le immense cure del luogotenente generale di Carlo V nel

Mediterraneo, nella scia di una politica continentale, mediterranea e italiana sempre alla ricerca di una

difficile egemonia imperiale, era un castello che appena puntellato sembrava crollare di colpo. E proprio sul

mare il più duro e terribile dei nemici, la flotta di Solimano, alleata dei corsari barbareschi di Algeri. Un

sistema di guerra oramai antico: sempre più uomini negli stessi spazi di una volta e pochi cannoni perché

appunto lo spazio era ridotto; guerra crudele e astuta, condotta dagli ammiragli indigeni con accortezza

mercantile, nel dispregio assoluto di qualsiasi convenzione cavalleresca che sul mare non aveva mai

attecchito. Del resto come rimproverare al D. e al suo rivale di avere anch'essi una propria Realpolitik che

s'identificava con la cura dei propri interessi? Carlo V doveva aver comprensione per questo "interesse".

Il legame stretto nel 1528 fra un giovane imperatore e un ammiraglio già sessuagenario doveva durare fino

alla morte. Il D. entrava così nella "grande storia" del suo secolo: come interprete sul mare della politica

imperiale e come signore di Genova. L'uomo grave e appassionato che fu Carlo V non manifestò mai dubbi

di sorta nei confronti del suo ammiraglio. Fin dal 1528 aveva dunque perfetta consapevolezza dei servizi

che poteva attendersi: l'egoismo mercantile del D. gli appariva del tutto logico e accettabile. Gli assicurava

comunque il controllo di Genova e una guida per una flotta sempre composita: galere di privati e di

Genova, di Napoli e di Sicilia, galere spagnole, pontificie e di Malta. Tale ricorrente sforzo navale

rappresentava una componente non secondaria nel complesso gioco politico e militare internazionale che

riguardava la Berberia e tutto il continente fino alle pianure danubiane e richiedeva quindi una straordinaria

mobilitazione di energie militari, diplomatiche e finanziarie. In effetti non si può isolare la vicenda

mediterranea dal contesto di questa politica che fissava volta a volta all'imperatore priorità diverse. Fu sul

Mediterraneo comunque che prese corpo l'alleanza franco-turca; era nel Mediterraneo verso il Magreb che

gravitava la tradizionale politica spagnola e verso Oriente (Cipro e Corfù) che gravitava invece la neutralità

armata di Venezia, non riconducibile alla egemonia imperiale ma naturalmente nemica del grande Impero

osmano. Ancora: era sul Mediterraneo che ancora poteva pulsare il grande progetto storico della crociata,

ripresa nel vario contesto dei rapporti fra Impero e Papato e in grado di vincolare temporaneamente anche i

nemici cristiani di Carlo V.

Se lette nel più ampio contesto politico-diplomatico le campagne mediterranee del D. ritrovano una loro

razionalità "di congiuntura": considerate per se stesse, secondo un'ottica strategica di più lungo periodo,

esse indicano certamente un insuccesso, sottolineano l'ascesa turco-barbaresca e la situazione di scacco

della flotta imperiale dal 1538 al 1560 e oltre. La caduta di Rodi (1522) aveva aperto il Mediterraneo ai

mussulmani. Algeri si affrancava direttamente nel 1529 e diventava sotto il Barbarossa la capitale militare

nel Mediterraneo. Per qualche tempo il D. mantenne una certa iniziativa: nel 1530 muoveva alla testa di

trenta galere (tredici francesi) contro Scercel, ma la spedizione non ebbe esiti molto positivi; nel 1532 fu la

volta della Morea con la conquista di Corone e Patrasso, ma il mancato accordo coi Veneziani fece sfumare

l'occasione per battere la flotta di Ahmed. Nel '33 ancora Corone fu soccorsa con successo. L'anno seguente

tuttavia il Barbarossa assumeva il comando della flotta mussulmana: alleato coi Francesi, saccheggiava

indisturbato l'Italia meridionale e conquistava Tunisi. A questo punto l'imperatore reagì e nel '35 organizzò

la liberazione di Tunisi, senza riuscire però a catturare Barbarossa che sfuggì alla sorveglianza di Adamo

Centurione. Nel 36 il D. era impegnato in Provenza; nel 37 i Veneziani investirono Corfù e poi

conquistarono le Cicladi: il D., forte di trentadue galere, sconfisse dodici galere turche ma il prezzo pagato

fu molto alto.

Nel '38 lo scacco della Prevesa: la lega antimussulmana, forte dell'appoggio veneziano, si dissolse in una

parodia di battaglia che inaugurò l'egemonia mussulmana sul Mediterraneo. Ormai la sproporzione delle

forze era evidente: Antonio Doria in una relazione del 1539 sostenne che per contrastare il Turco

occorrevano duecentocinquanta galere e a questo fine era necessaria l'alleanza con Venezia. L'Impero

avrebbe dovuto tenere in campo centoventicinque galere invece delle sessantadue che teneva abitualmente.

Era necessario che lo stuolo restasse unito a lungo, che avesse un suo porto fisso. Il necessario sforzo

finanziario era stimato ammontare a 430.000 scudi all'anno. Ormai la carta dell'alleanza veneta era stata

buttata via alla Prevesa e non sarà più disponibile fino ai giorni di Lepanto. Il D. era sulla difensiva. Ancora

uno sporadico successo nel 1540 quando Giannettino Doria catturò Dragut che venne incatenato al remo.

Ma subito dopo fu il disastro di Algeri: la spedizione imperiale naufragò miseramente sulla spiaggia

africana. In quei giorni il D. salvava l'Impero e Carlo V riconoscente lo nominava protonotaro del Regno di

Napoli e marchese di Tursi. Ormai la partita mediterranea era ampiamente compromessa e di conseguenza

scemò l'impegno nel Mediterraneo. Ancora nel '43 il D. poteva battere la squadra francese isolata, ma

l'arrivo di Barbarossa capovolse la situazione: Nizza fu saccheggiata, Genova risparmiata. P un fatto che

l'oro genovese aveva cominciato a "correre", che rapporti più o meno segreti erano mantenuti con la Porta e

con i pascià dagli stessi Imperiali. Si spiega così la liberazione di Dragut, la cui vita valeva bene un sacco di

Genova. Accordi personali o accordi politici? Il confine è sfuggente e comunque pedantesco. I tornaconti

del D., come quelli della Repubblica, sono evidenti: Barbarossa era corruttibile come più tardi lo furono i

pascià, né l'ammiraglio poteva opporsi alla soverchiante forza mussulmana.

Le successive spedizioni contro Dragut, il più famoso corsaro mediterraneo, furono infruttuose. Nel

periodo di pace militare sul mare fra il 1545 e il 1550 era divampata la guerra di corsa: tipica risorsa dei

tempi di magra quando non era possibile sostenere lo sforzo grandioso della guerra di flotta e le priorità

sono diverse (i Turchi impegnati in Persia).

L'azione militare del D. si caratterizza così per l'estrema prudenza. Il capitale in gioco era prezioso e dopo il

1538 il rapporto di forze era decisamente sfavorevole. D'altra parte una clamorosa disfatta era

pregiudizievole anche per gli interessi imperiali. Certamente anche il destino di Genova era direttamente

coinvolto da questa vicenda militare, la minaccia corsara sempre viva sulle Riviere, soprattutto dopo il

1540, una sorta di "grande paura" che non favoriva certo il carisma del Doria.

Poteva d'un colpo cessare la passione faziosa proprio quando la mobilità della situazione internazionale, la

grande volatilità delle fortune militari, gli interessi e gli intrighi dei papi, dei re e dei principierano all'opera

sulla società genovese, questo sensibile nervo dell'egemonia italiana di Carlo V? L'episodio classico fu la

congiura del conte Gian Luigi Fieschi del 1547, ma essa rivelava appunto un "nido di vipere".

Fu una classica tragedia rinascimentale, di quelle care alla sensibilità romantica. Cominciava con una

rivalità di giovani: il colto e sensibile Gian Luigi e il rozzo Giannettino Doria, balzato dalle povere rendite

onegliesi ai fasti della luogotenenza imperiale per il favore dello zio. In un certo senso la riproduzione di un

contrasto stereotipo: l'aristocratico raffinato e il parvenu politico che tutto si permetteva, perfino di insidiare

la moglie del primo. Orgoglio di casato, invidie marinare, gelosie di marito alimentati dalla frequentazione

stessa e strumentalizzati dalle corti di Roma e di Francia. La rivalità acquista presto risvolti politici, stimolati

dalle tradizioni di ostilità familiari e da un certo clima culturale: "popolo e libertà contro tirannide",

l'esempio antico di Bruto. Il passaggio all'azione è fatale a entrambi i contendenti nella stessa notte fra il 2 e

il 3 gennaio: Gian Luigi morto affogato per una banale caduta in mare e Giannettino morto ammazzato

mentre accorre alle grida. Un fulmine a ciel sereno che coglie il principe impreparato ma lesto comunque a

sellare un cavallo per Masone.

Morti i protagonisti, il gioco delle parti si rivela solo lentamente in un lungo stillicidio di quadri: diffidenze e

connivenze, alternative e continuità. Notiamo anzitutto la preoccupazione generale per quel che sarebbe

accaduto con la morte del vecchio principe ottuagenario. Che occorresse agire subito era opinione diffusa,

tanto da parte spagnola quanto da parte genovese. La linea apologetica di Scipione Fieschi fu quella che

Gian Luigi volesse evitare una signoria di Giannettino.

L'ambasciatore Figueroa del resto aveva posto il problema della successione fin dal 1533. Ma c'erano

diverse tendenze attorno alla congiura e una faceva capo a Spinola e Adorno, nonché a un popolare

influente come Lasagna. All'indomani dei fatti di gennaio questo gruppo si presenta come oltranzista

filoispanico e Agostino Spinola come l'uomo di Figueroa. E ovviamente c'erano anche i "fregosardi". Ma le

forze dell'opposizione non riuscirono a coagularsi. Un'iniziativa di famiglia quella di Gian Luigi, i fratelli, i

cognati Niccolò Doria e Giulio Cibo. I primi furono subito compromessi, ma ottennero l'indulto da un

Senato diviso e spaurito, purché abbandonassero Genova. Ma risulteranno coinvolti anche uno Spinola, un

Giustiniani e l'ex doge G. B. Fornari. Ancorché la frattura fra nobili vecchi e nobili nuovi fosse già in atto -

com'è dimostrato dall'elezione a sorpresa dello stesso Fornari nel '45 - la loro collaborazione nelle diverse

fazioni traspare tuttavia chiaramente. C'è il sospetto di un sostegno plebeo all'azione dei Fieschi: con

riferimento al Verrina e al suo seguito nonché alla benevolenza del conte Fieschi verso i tessitori di seta. Il

1546, occorre ricordare era stato anno nero per gli approvvigionamenti granari. L'interrogativo rimane.

Anche il Lasagna vantò al Figueroa un sostegno di massa alla causa spagnola. Nel febbraio del 1547

l'ambasciatore comunicava a Carlo V la notizia di un moto fomentato in borgo S. Donato da un tale di casa

Doria contro la minaccia "Spagna e Adorno", "y como en atiquella parte son Fregosos, facilmente se

alborotaron todos". L'antica tradizione del governo "a cappellaccio", cioè di fazione, poggiava su sentimenti

ancora ben vivi di partigianeria rionale. Il D. ne era consapevole e ribatteva all'ambasciatore che era meglio

che fossero disuniti con le loro passioni particolari cosicché non avrebbero fatto novità. Certo il processo

dell'"Unione" che aveva preso corpo nella costituzione del '28 non era molto avanzato e la signoria

informale del D. appariva come una pausa nel gioco politico decisivo delle fazioni.

Su di esse lavoravano tanto Adamo Centurione che si proclamava come vero interprete dell'umore dei

cittadini per conto dell'ammiraglio, tutto preso dalle cose militari, quanto il Lasagna per Agostino Spinola.

Di fatto gli avvenimenti del 1547-48 riportavano in primo piano il ruolo delle grandi famiglie Fieschi,

Doria, Spinola con qualche frattura interna, più vistosa nel caso dei Doria forse per la rivalità acuta fra il D.

e il cugino cardinale Gerolamo, padre di Nicolò imparentato coi Fieschi.

Figueroa e Ferrante Gonzaga sembravano puntare sugli Spinola, più pronti ad accettare il progetto della

fortezza che avrebbe dovuto garantire il controllo della città all'Impero: contro, Adamo Centurione, che

appare il vero capofila del partito del principe, controllava col figlio Marco le galere ed era in effetti il più

probabile successore del Doria. Del resto i funzionari imperiali non potevano trascurare la volontà del D.

che non consentiva che uno Spinola occupasse il posto di capo militare di una più sostanziosa guarnigione

a Genova. In questi mesi critici il suo predominio era garantito dalle venti galere ancorate nel porto e pagate

da Carlo V: 125.000 scudi all'anno - annotava Ferrante Gonzaga - assai più di quanto sarebbe occorso per

costruire la fortezza. Francesco Grimaldi e Adamo Centurione con due successive missioni per conto del

principe presso Carlo V erano riusciti a stornare la minaccia immediata. Tutto era stato rimandato alla

imminente visita del principe Filippo a Genova. Filippo venne infatti verso la fine del novembre 1548,

ospite del D. a Fassolo: lungo la via, cosparsa di archi di trionfo, le "imprese" pitturate su enormi pannelli di

legno ripetevano i motivi celebrativi ormai tradizionali, e una di queste invitava il giovane ingegno a cedere

di fronte alla matura esperienza.

Bernardino Mendoza, in un suo classico ragionamento, difendeva l'indipendenza di Genova: "giuri fiscali e

feudi" legavano sempre più la nobiltà, la "vecchia" soprattutto, ai destini della Corona spagnola. Era

"l'invisibile ma inespugnabile fortezza dell'interesse" più solida e duratura di quella del Castelletto: una

giusta intuizione dei tempi nuovi che erano maturati con la più recente e massiccia partecipazione dei

capitali genovesi ai prestiti imperiali. Il D. rimaneva probabilmente legato alla simbologia del 1528, quando

egli aveva fatto abbattere la fortezza. In ogni caso l'autorità ufficiale della Repubblica fu chiaramente

coartata e la diplomazia parallela del principe si rivelò ben più decisiva che non l'iniziativa dell'ambasciatore

Ceva Doria. L'indulto concesso ai fratelli Fieschi era stato revocato; Montoggio assediata e i colpevoli, a

cominciare da Gerolamo Fieschi, messi a morte. Così nella corsa alla spogliazione dei feudi Fieschi le

aspirazioni della Repubblica su Torriglia e Montoggio erano state frustrate: il D. ottenne, a titolo di

risarcimento per i danni subiti e per la benevolenza imperiale, questi e altri feudi dei Fieschi. Antonio Doria

ebbe Santo Stefano e la Repubblica dovette accontentarsi di Roccatagliata e Varese (Varese Ligure), centri

non altrettanto importanti dal punto di vista strategico.

La cronaca di questi mesi cruciali getta luce sul carattere della signoria doriana: in ultima istanza l'elemento

decisivo è rappresentato dal "rapporto speciale" con l'imperatore. Per quanto ostili e critici, soprattutto il

Gonzaga, i funzionari imperiali non potevano prescindere dalla sua volontà e neppure dai suoi umori.

L'asientista tenevain sella il signore. L'esito interno fu la creazione di una maggiore solidarietà fra i nobili

"vecchi": da questo punto di vista la riforma costituzionale del 1547 fu un chiaro atto di partigianeria

politica. "Vecchi" erano tutti gli asientistas de dineros. Al di là della semplice riforma del sistema elettorale il

D. tendeva a una drastica riduzione dei membri dei serenissimi Collegi e cioè a un potenziamento

dell'esecutivo in senso oligarchico.

La riforma detta "del garibetto" creò un forte scontento fra i nobili "nuovi" e polarizzò il contrasto sociale e

politico nella classica linea storica del contrasto fra nobili e popolari smentendo l'"Unione". I nodi sarebbero

venuti al pettine nel 1575.

Per il momento la stella del D. poteva continuare a brillare. Beninteso si continuò a parlare del problema

della successione. Non è chiaro quanto questo problema fosse o restasse legato con quello del comando

delle galere: il D. era comunque il più grosso proprietario di galere su piazza e questo era un patrimonio ben

suo, che egli poteva risolvere in termini di delega e successione. Intanto nel 1551 riapparve la flotta di

Siman pascià che conquistò Tripoli: il D., rinchiusosi in Villafranca, rifiutò perfino lo scontro con lo stuolo

francese dello Strozzi. Nel 1552 Siman investì Reggio e Napoli e fu giocoforza operare in soccorso di

Napoli - quaranta contro centoventi galere - e il D. ne perse sette a Ponza.

Nel 1553 Dragut ebbe il comando della flotta turca e con i Francesi investì la Corsica. Ma Genova e gli

Imperiali organizzarono un'efficace riscossa: si attese che la flotta turca rientrasse alle basi per svernare e si

riprese l'iniziativa. Così si operò anche negli anni seguenti. Il D. e Cosimo I, un'alleanza certo poco sincera,

erano in questi anni i protagonisti della politica imperiale in Italia. Il debutto di Gian Andrea Doria, figlio del

defunto Giannettino, non avvenne sotto buoni auspici: ben dieci galere furono perse per mera imperizia di

manovra.

La rinnovata minaccia della flotta turca e l'invasione della Corsica crearono probabilmente negli anni

Cinquanta un certo clima di emergenza a Genova. Pur impotenti contro il Turco, la flotta del D. e l'alleanza

con l'Impero e la Spagna rappresentavano per la Repubblica l'unica possibilità di colpire a sua volta, di

lanciare la sua controffensiva per la difesa di un possedimento ritenuto vitale. D'altronde fu proprio in

questi anni che Genova poté tornare a rifornirsi di grano orientale entrando in qualche modo nel gioco della

stessa "enipia alleanza" franco-turca. L'oro genovese fece ancora miracoli nel 1558: "lavorato" dal denaro

genovese, Piali pascià risparmiò ancora una volta le Riviere e frustrò i più ambiziosi disegni politico-militari

del re di Francia.

Sicché la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, riconoscendo a Genova il possesso della Corsica, concludeva

questo capitolo dei controversi rapporti storici fra metropoli e colonia (1553-59). Pertanto iniziate in

Corsica contro Ranuccio Della Rocca le sue imprese genovesi, ancora nella Corsica doveva concluderle il

D. (per delega beninteso) contro Sampiero di Bastelica.

Nel novembre dello stesso anno Medinaceli e Giovanni (Gian) Andrea Doria guidavano la flotta e un

esercito al disastro delle Gerbe (2 marzo 1560). Come venti anni prima ad Algeri. Il vecchio ammiraglio

stava vivendo l'ultimo anno di vita nella sua reggia di Fassolo: la notizia del disastro sancì il suo ambiguo

destino militare. Il suo, oramai proverbiale, consiglio di prudenza era rimasto inascoltato. Il destino

dell'astro Doria nella politica genovese era fatalmente segnato dalla morte del D. avvenuta a Genova il 25

nov. 1560. Filippo II poteva riconoscere la successione del pupillo Gian Andrea nella luogotenenza del

Mediterraneo, ma la signoria su Genova restava un fenomeno eminentemente personale. La dinastia stessa,

quel ramo dei Doria, sarà fatalmente spinta verso un destino cosmopolitico, soprattutto romano.

L'esperimento della signoria informale non era riproducibile per successione: questo era chiaro fin dal

1547. Angoscia terribile per un principe, questa di un patrimonio esclusivamente personale, di una

continuità impossibile in termini dinastici. Il D. aveva potuto trasmettere il comando delle galere, perfino la

luogotenenza imperiale, ma non una signoria mai riconosciuta come tale. Accostumato al ruolo decisivo dei

rapporti personali e speciali, egli non aveva probabilmente alcuna fiducia nella nuova costituzione

repubblicana, nelle istituzioni che erano state sperimentate sotto la sua tutela. Ed è per questo forse che

negli ultimi anni della sua vita il D. giunse a proporre che la Spagna s'insignorisse di Genova. La

testimonianza è ancora del Figueroa, ma essa, a ben considerare, non fa stupore. Quando nel 1547-48 egli

si era opposto a un atto di volontaria dedizione di Genova agli Spagnoli, un gesto che implicava per lui, così

come il consenso alla fortezza, la rinuncia al proprio "onore", ma non alla possibilità che l'imperatore

prendesse di propria iniziativa una decisione di signoria. L'onore di un corsaro? Piuttosto il puntiglio e

l'orgoglio di un principe che non voleva rinunciare al "miracolo" del 1528, al suo personale capolavoro

politico.

Certamente il D. non era persona che s'abbandonasse a scrivere ragionamenti sui tempi suoi, ma

ovviamente aveva una sua personale saggezza. Franzino Della Torre riportava così a Federico Gonzaga nel

1535 un colloquio avuto col D.: "che oggi tutta la Christianità sia divisa in due affetti, l'uno de lo

Imperatore, l'altro di Franza et che quasi sia necessario passare per uno di questi camini ad ogni persona di

momento. Che quello dello imperatore mo sia il migliore non gli pare... gli sia dubio". Già Ottaviano

Fregoso aveva operato questa scelta nel 1515 offrendo la signoria a Luigi XII. Diviso in due il "mondo

politico", era necessario scegliere bene la propria parte: alla propria opzione, non ulteriormente giustificata,

il D. era riuscito a congiungere l'idealità della "libertà e indipendenza" della Repubblica, come piattaforma

di governo idonea a uno Stato di mercanti, un'idealità subordinata al realismo politico e non una idea-guida.

Grande asientista di Carlo V e suo luogotenente nel Mediterraneo egli possedeva l'unico esercito di una

Repubblica quasi disarmata, cioè le galere, cosicché, offrendole la libertà, le imponeva di fatto la propria

egemonia. Del resto solo la sua posizione militare nel sistema imperiale era in grado di garantire quella

indipendenza, entro i limiti ben chiari di un'opzione, una scelta necessaria fra le due grandi potenze.

Per il doppio apporto di prestigio la sua figura pubblica ne risultava ingigantita e il palazzo-corte di Fassolo

esprimeva appunto questa esaltazione. Le vicende militari sul mare, poco brillanti nel complesso, potevano

oscurare la fama dell'ammiraglio: egli rimaneva il garante della fedeltà di Genova e l'esecutore di direttive

imperiali. Se la sua signoria scricchiolava come nella crisi del 1547-48 rivelando che quella garanzia non

era più cosi solida, il D. era purtuttavia il luogotenente dell'Impero, il padrone di venti galere, l'estremo

baluardo di fronte alla assoluta supremazia franco-turca sul mare. Così le sue due "dignità", i suoi due ruoli

si sostenevano a vicenda e sostenevano le fortune di un uomo ormai vegliardo.

L'impressione che se ne ricava è quella di una mirabile costruzione politica della propria fortuna personale:

approdato relativamente tardi alla imprenditoria della guerra navale il D. stabilizzò per sempre il suo

rapporto col committente imperiale col contratto del 1528 proprio in virtù delle straordinarie clausole

politiche che erano comprese nel medesimo.

L'ammiraglio operava in un quadro preciso: asiento, politica imperiale e sforzi finanziari navali diversi. Il

politico ebbe il merito indubbio di costruire attorno alla sua persona una straordinaria retorica protettiva

(unione e indipendenza). Per il resto la congiura del Fieschi ha rivelato sentimenti e strutture di alleanza

assai tradizionali, il gioco delle fazioni, dei "colori" e delle famiglie per nulla superato dalla sperimentazione

costituzionale. L'oligarchia degli amici del D., un direttorio del principe si formò a latere dello Stato come

esito della speciale posizione di predominio del principe, senza connessione diretta con le istituzioni:

rientrava nella tipologia delle "signorie informali" caratterizzate da forti elementi di prestigio e di potere

personali. Qui è chiaro che il giudizio sommario anticipa lo studio analitico di un sistema di potere che non

è ancora stato tentato. La formula interpretativa della figura del D. che si e proposta è sufficientemente utile

per sgombrare il campo da molti falsi problemi, sufficientemente rispettosa verso la migliore tradizione

degli studi su quel periodo storico. E soprattutto è solo una formula, oltre la quale cioè la ricerca e l'analisi

storica possono proseguire su un più moderno terreno di concretezza.

Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. univ., 3, VII, 5: G. Cibo Recco, Historie che trattano la guerra di Corsica in

tempo di Sampiero di Bastelica; Ibid., E, IV, 5-10: A. Doria, Relazione delle cose turchesche; A. Capelloni,

Vita del principe A. D., Venezia 1565; A. P. Filippini, La historia di Corsica, III, Toumon 1594; G. Sigonio,

Della vita e dei fatti di A. D., Genova 1598; F. Casoni, Annali di Genova nel secolo XVI, Genova 1800, ad

Indicem; M. Spinola-L. T. Belgrano-F. Podestà, Documenti ispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, in

Atti della Soc. ligure di storia patria, VIII (1868), pp. 1-291 passim; A. Gavazzo, Nuovi documenti sulla

congiura del conte G. L. Fieschi, Genova 1886; E. Bernabò Brea, Sulla congiura del conte G. L. Fieschi,

Genova 1863; E. Celesia, La congiura di Gian Luigi Fieschi, Genova 1865, pp. 3 ss.; A. Merli-L. T.

Belgrano, Il palazzo del principe Doria a Fassolo, ibid., X (1874), pp. 2 ss.; C. Manfroni, Storia della

marina italiana, III, Roma 1897, ad Indicem; A. Neri, A. D. e la corte di Mantova, Genova 1898; G.

Manfroni, Le relazioni fra Genova, l'Impero bizantino e i Turchi, in Atti della Soc. ligure di storia patria,

XXVIII (1898), pp. 757-763, 768, 777, 779, 837 s., 847; E. Pandiani, Il primo comando in mare di A. D.,

ibid., LXIV (1935), pp. 344-358; A. Neri, I negoziati per attirare A. D. al servizio di Carlo V, in Giorn. stor.

e letter. della Liguria, XVIII (1942), pp. 51-75; E. Pandiani, Genova e A. D. nel primo quarto del '500,

Genova 1949; G. Oreste, Genova e A. D. nella fase critica del conflitto franco-asburgico, in Atti d. Soc.

ligure di storia patria, LXXII (1950), pp. 3-69; V. Piergiovanni, Il Senato della Repubblica di Genova nella

riforma di A. D., in Annali d. Facoltà di giurisprudenza d. Univ. d. studi di Genova, IV (1965), I, pp. 230,

233, 235, 275; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris

1966, ad Indicem; E. Parina Armani, Il palazzo del principe A. D. a Fassolo, in L'Arte, 1970, n. 10, pp. 12

-63; E. Grendi, Genova alla metà del '500: una politica del grano?, in Quaderni storici, XIII (1970), pp.






Giovanni Andrea era figlio di Giannettino Doria e di Ginetta Centurione.



DORIA, Giannettino (Giovanni)
Dizionario Biografico degli Italiani
di M. Cavanna Ciappina
DORIA, Giannettino (Giovanni). - Nobile genovese, figlio di Tomaso e di Maria Grillo, fu erede e

luogotenente di Andrea Doria.

L'essere stato designato successore del grande Andrea e l'aver trovato la morte nella congiura dei Fieschi

mentre era ancora giovane e al colmo della fortuna hanno fatto del D. un personaggio, nel senso

romanzesco e teatrale piuttosto che storico del termine (come del resto è stato trattato nelle pagine, tra gli

altri, di Rousseau e di Schiller); ed anche tutte le antiche testimonianze finiscono col lasciare

suggestivamente aperti i problemi di ordine interpretativo e persino biografico che lo riguardano. E questo

non tanto - o non solo - perché la congiura che decretò la morte del D. sia stata interpretata ora come

l'espressione di una consapevole volontà politica, antispagnola e filofrancese (comune non solo ai Fieschi

ma a una parte della nobiltà genovese), o anacronisticamente libertaria (di cui comunque l'antagonista del

D., Gian Luigi Fieschi, sarebbe la personificazione), ora, più semplicisticamente, come un delitto d'onore

favorito dall'invidia nei confronti del potere e delle ricchezze rapidamente acquisite dal fortunato rivale (e

del resto queste interpretazioni si susseguono e si intrecciano più o meno stereotipate dalle antiche

cronache alle storie recenti): i problemi sussistono perché il D. compare sempre di scorcio rispetto alle

vicende in cui pure è direttamente coinvolto. Prima strumento nelle mani del grande Andrea (e perciò

presente in tutte le monografie sull'ammiraglio, ma in modo occasionale e generico, anche quando si

ricordano le sue azioni marinare); poi unica vittima illustre del Fieschi (e come tale altrettanto

genericamente classificato in tutte le monografie sulla congiura).

Per queste ragioni anche i dati biografici del D. sono scarni, tanto che per l'erede designato del Doria

mancano una data di nascita precisa (anche se deducibile come avvenuta tra il 1510 e il 1520), il luogo

(forse Genova, forse il feudo di Oneglia; certo fu allevato in campagna, come sottolineano le fonti, Casoni

compreso, che pretendono spiegare l'altezzosità del carattere del D. come derivata dalla sua condizione di

"paesano" inurbato) e notizie sicure sulle vicende anteriori al suo ingresso nella casa del principe.

Eppure anche il padre del D., cugino di primo grado di Andrea, aveva svolto un ruolo di rilievo nella

"liberazione" di Genova operata dall'ammiraglio nel 1528: tanto è vero che il governo della Repubblica,

nello stesso decreto a favore di Andrea, aveva riconosciuto anche a Tomaso e al fratello di lui Francesco (o

Franco) e ai loro discendenti maschi (praticamente solo il D. allora giovanissimo) sia i privilegi relativi alla

casa di piazza S. Matteo sia l'esenzione in perpetuo dalle gabelle, come benemeriti della patria.

L'adolescente D. si trovava dunque ad essere l'unico discendente maschio di tutto questo ramo dei Doria: il

nonno Giovanni, fratello del Ceva padre di Andrea Doria, aveva avuto una femmina, Pellegra (poi sposa a

Ludovico Doria, senza figli), e i due maschi Tomaso e Francesco. Dal matrimonio di Tomaso con Maria

Grillo di Lorenzo, oltre al D., erano nate tre femmine, Geronima, Peretta e Vittoria (poi coniugate

rispettivamente con Tomaso Doria di Paolo, con Giulio Cibo in prime e con Filippo del conte Filippino

Doria in seconde nozze, e col marchese Giuseppe Malaspina); Francesco aveva avuto tre femmine rimaste

nubili, e nessun altro dei cugini di quella generazione (Onorato di Giacomo; Agostino e Gerolamo di

Branca; David, Raffaele e il grande Andrea di Ceva) aveva avuto figli. Il padre del D. morì probabilmente

tra il 1529 e il 1530 e il D., già iscritto nel 1528 all'albo della nobiltà, sembra aver trascorso un periodo di

sbandamento: una fonte manoscritta (Genova, Bibl. civ. Berio, m.r. X, 12, 50) parla di "disgusti" che il D.,

giovane di pochi mezzi e di "ingegno acre e feroce", avrebbe provocato in Andrea che "non lo potea sentir

nominare"; ma poi lo zio Franco Doria avrebbe interceduto per lui e ottenuto di avviarlo alla marineria sotto

la sua guida. Il coraggio dimostrato dal giovane D. sul mare avrebbe spinto il principe, ormai deluso dal

figliastro Marc'Antonio Del Carretto, a trasferire sul D. il suo interesse e poi la sua predilezione.

Marc'Antonio, quarto e ultimo figlio di Alfonso V marchese Del Carretto e di Peretta Cibo, era stato

adottato da Andrea (che voci maligne volevano fosse il vero padre) dopo che nel 1527 era stato

solennemente reso pubblico il matrimonio di Andrea con Peretta, vedova del primo marito; quindi era stato

nominato luogotenente dell'ammiragliato di Spagna. Quando poi, nel 1531, Andrea aveva ricevuto da Carlo

V il principato di Melfi, mantenuto per sé il titolo, aveva assegnato la cospicua rendita annuale a

Marc'Antonio che, sposata due anni dopo Vittoria de Leyva, vi si trasferiva, incurante dello sdegno del

principe, con cui era ormai in contrasto sempre più aperto, nella presuntuosa certezza della inalienabilità dei

diritti acquisiti. Invece Andrea, nel suo disegno politico, come "principe" aveva bisogno di un "delfino" che

assicurasse la continuità dello statu quo alla classe dirigente genovese che nel suo disegno vedeva garantiti i

propri interessi, e come ammiraglio aveva bisogno di un luogotenente audace sul mare ma ossequiente alle

sue direttive, tanto più che gli altri grandi marinai della famiglia (coi quali manteneva il tessuto di manovra

delle galee imperiali nell'area mediterranea premuta dalla coalizione franco-mussulmana) erano o occupati

in personali ambiziosi progetti (Antonio) o troppo maturi d'età (Francesco e il conte Filippino) per poter

garantire ad Andrea il mantenimento di quella "compagnia di ventura" sul mare che, resa per tanti anni

solidale proprio dai vincoli familiari, costituiva pur sempre la base (anche se sempre più formale che

sostanziale) del suo potere politico di grande assentista e dei gruppi finanziari a lui collegati: dell'amico

Adamo Centurione prima di tutti.

L'occasione della rapida ascesa del D. sembra offerta proprio dalla volontà di cementare con un vincolo

matrimoniale il sodalizio Centurione-Doria. Adamo Centurione avrebbe chiesto al principe di sposare la

propria figlia Ginetta con Nicolò Doria, figlio di Gerolamo, ormai cardinale (in debito di riconoscenza con

Andrea per l'ottenuta porpora). Ma il cardinale, che sperava come nuora in una figlia di Sinibaldo Fieschi,

oppose un inopinato rifiuto alla ricchissima dote di Ginetta. Andrea allora propose al Centurione il D., sul

quale aveva deciso di trasferire con scrittura solenne ogni sua eredità. Il matrimonio fu celebrato nel 1537;

due (o tre) anni dopo nasceva Giovan Andrea.

Proprio nello stesso breve arco di anni il D. divenne onnipresente nella vita di Andrea, nella cui villa di

Fassolo risiedeva con la famiglia. Nell'estate 1537 partecipò alla spedizione che da Messina (dove si era

incontrato con Antonio Doria e Garcia di Toledo) Andrea, forte di 28 galee ben armate, condusse contro

l'armata di Solimano I a Cefalonia. Nel porto di Corfù sorpresero e catturarono 10 navi da carico nemiche;

poi, durante il ritorno, presso le isole Merlere, due galee turche e una fusta, catturata personalmente da

Giannettino Doria. Nell'inverno tra il 1537 e il 1538 Andrea fece armare 5 nuove galee; quindi, nel marzo,

partendo per la Spagna con Adamo Centurione per abboccarsi con Carlo V, lasciò al D. l'incarico di

provvedere alle riparazioni e all'approvvigionamento della flotta, in quel momento di 20 galee. Alla guida di

queste il D. andò poi a prelevare Andrea, diretto a Nizza per presenziare all'incontro tra l'imperatore e il

pontefice, che ancora il D. trasportò da Savona con 10 galee di Andrea, dal 10 al 16 maggio, con forzata

sosta a Monaco. Nella stessa estate del '38, sempre agli ordini di Andrea, il D. partecipò alla grande e

sfortunata spedizione coalizzata contro il Barbarossa; durante l'inverno successivo ebbe l'incarico di

provvedere ai rifornimenti dei presidio di Castelnuovo, vicino alle Bocche di Cattaro, presidio che il

Barbarossa riuscì a conquistare nella primavera del '39, nonostante il tentativo di soccorso messo in atto dal

D. per ordine di Andrea. Ma la grande occasione di conquistarsi una personale gloria militare si presentò al

D. nell'estate del '40 quando, alla guida delle 21 galee di Andrea (che in quel momento si trovava in Sicilia),

sorprese nel golfo di Girolata in Corsica la flotta del corsaro Dragut.

L'impresa fu clamorosa: il D. riuscì a catturare 9 degli 11 vascelli (tra cui 2 galee) e Dragut stesso, che

condusse in catene a Genova, nonché a liberare duemila cristiani tenuti prigionieri tra l'isola di Capraia e

Pirro in Corsica. Anche se pochi anni più tardi Dragut fu riscattato (secondo la posteriore testimonianza del

figlio del D., Giovan Andrea, per compiacere ai "comodi" dei Lomellini che operavano a Tabarca), la fama

del D. come capitano di mare divenne enorme, tanto più che l'anno dopo, nella disastrosa spedizione di

Algeri guidata dallo stesso Carlo V (nel naufragio furono decimate anche le galee di Andrea Doria), il D.

riportò somma lode per aver messo in salvo le truppe imperiali nella loro ritirata.

Nel maggio 1542, al riacutizzarsi del conflitto franco-imperiale, Andrea Doria non era ancora pronto con la

nuova flotta; ciononostante affidò al D. il comando di una squadra e l'incarico di rifornire Perpignano, alla

frontiera dei Pirenei, assediata da uno dei tre eserciti francesi. Dall'anno successivo, nonostante

l'imperversare del conflitto, il sacco di Nizza, la presenza dinamica di Andrea sulla scena militare e

diplomatica, il D. non appare direttamente impegnato in azioni di guerra. Invece, nel gennaio 1543, con

alcune galee si recò ad Avenza per imbarcare i novelli sposi Gian Luigi Fieschi ed Eleonora Cibo e

trasportarli a Genova. Da quel momento, nella vicenda del D. risulta difficile districare da un "privato"

fortemente romanzato la realtà dei fatti e le loro possibili connessioni politiche.

La bellezza di Eleonora e i presunti tentativi di seduzione del D., la sua arroganza anche nei confronti dei

potenti della città, arroganza con la quale forse tentava di mascherare la mancanza di doti politiche e

diplomatiche, addirittura precedenti rancori del Fieschi per un matrimonio mancato con Ginetta Centurione

andata poi sposa al D. (ma non solo le date sembrano escluderne anche l'ipotesi), la gelosia del Fieschi

rivolta pure all'affetto che il vecchio Doria nutriva nei confronti del D. e per i beni di cui andava

colmandolo, il suo desiderio di vendetta che lo avrebbe spinto a cercare le alleanze della Francia, del papa,

del duca di Parma Pier Luigi Farnese e degli altri signori d'Italia legati alla Francia, sono in gran parte

elementi da romanzo.

Il retroscena politico della congiura in cui il D. trovò la morte va ricercato invece nella profonda

trasformazione che si era operata in seno alla classe dirigente genovese negli ultimi venti anni: da quando

cioè, quattro anni dopo la riforma doriana del 1528, la morte del padre di Gian Luigi, Sinibaldo Fieschi (la

cui alleanza e piena solidarietà con Andrea Doria aveva garantito il successo del programma dell'"Unione")

aveva segnato l'inizio della progressiva emarginazione della nobiltà feudale per lasciare il posto a quella

finanziaria, bene espressa da Adamo Centurione. Come il matrimonio tra il D., erede di Andrea, e Ginetta,

figlia del Centurione, sembra la metafora dell'avvenuta trasformazione (il nuovo gruppo di controllo si

regge sulla convergenza di assentisti di galee come il Doria e di grandi banchieri come il Centurione), così

la congiura del giovane Fieschi, che mirava, con l'eliminazione di Andrea Doria, del D. e di Adamo

Centurione, alla "decapitazione pura e semplice del partito avversario" (Costantini, p. 40), esprime il

disperato tentativo della vecchia aristocrazia feudale, ormai esautorata, di bloccare un processo

inarrestabile.

Il colpo di mano, preparato con cura da Gian Luigi (che aveva cercato adesioni anche tra gli artigiani tessili

e gli strati plebei, e cui i feudi appenninici avevano fornito il grosso dei contingenti armati), subì all'ultimo

momento una imprevista anticipazione. Era stato fissato per il 4 genn. 1547, al termine dei festeggiamenti

per il matrimonio tra Giulio Cibo, cognato di Gian Luigi, e Peretta, sorella del D., festeggiamenti cui

sarebbe intervenuta tutta la famiglia Doria. Ma poiché il D., dovendo all'improvviso recarsi fuori Genova,

non avrebbe potuto essere presente, il colpo fu anticipato alla notte del 2 gennaio (giorni comunque

significativi perché, appena scaduto il mandato dogale di G. B. De Fornari, non era ancora stato eletto il

nuovo doge). Il pomeriggio del 2 gennaio il Fieschi si recò alla villa di Fassolo a visitare Andrea sofferente e

si intrattenne col D., cui comunicò l'intenzione di uscire la sera con una galea per giustificare

anticipatamente il rumore di armati proveniente dalla darsena. In effetti, l'azione notturna di sorpresa riuscì:

gli uomini del Fieschi si impadronirono delle porte della città e della darsena; dalle galee i galeotti

fuggirono; ma, mentre distribuiva i presidi alle galee, Gian Luigi scivolò da un pontile e annegò. Il D.,

accorso alla porta di S. Tomaso già occupata dai rivoltosi, fu ucciso da un soldato, tale Agostino Bigellotti di

Barga, con un colpo di archibugio (o, secondo altri, di scure).

L'incalzare degli eventi successivi (Adamo Centurione, Filippino e Agostino Doria e altri familiari e amici

che si preoccupano di far fuggire Andrea, rifugiatosi a Masone; il ruolo di Gerolamo Fieschi nella

prosecuzione del progetto del fratello; la tregua; il pronto ritorno di Andrea e la sua vendetta; la riforma

legislativa detta del "garibetto") fanno si che del D., una volta ucciso, si perdano letteralmente le tracce:

benché le condoglianze arrivino ad Andrea da tutti i potenti (anche da quelli forse in qualche modo

implicati nella congiura), il D. sembra non aver avuto né funerale né celebrazioni funebri (e questo

potrebbe essere ovvio, date le circostanze, ma potrebbe anche avere un significato politico) né sepolcro. E

appare strano che il vecchio Doria non abbia provveduto ad erigergli un monumento nella chiesa gentilizia

di S. Matteo, dove riposeranno, tra tanti membri della famiglia Doria, egli stesso e poi Giovan Andrea, a

meno che non considerasse l'eventuale cenotafio come il visibile simbolo di questa sua sconfitta. L'effigie

del D. resta invece affidata al bel ritratto giovanile conservato in palazzo Doria Pamphilj a Roma e

tradizionalmente attribuito al Bronzino, in rapporto con un soggiorno romano del pittore (e quindi anche

del D.) del 1546. E certa elusività del personaggio sembra riproporsi ancora attraverso questo ritratto di

attribuzione incerta e che è possibile datare con certezza solo adquem, col termine della morte del Doria.

Ben documentata invece la discendenza del D.: da Ginetta Centurione ebbe tre maschi (Giovan Andrea,

Carlo, Pagano) e tre femmine: Placidia, poi sposa a Nicolò Spinola di Luca; Geronima, in Giovanni Spinola

di Leonardo, e Maria, nubile. Giovan Andrea, rimasto orfano ad otto anni, avrebbe raccolto giovanissimo

l'eredità paterna nel cuore - e in tutte le sostanze e privilegi - del vecchio Andrea Doria.

Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. civ. Berio, m.r. XIV, 3, 13: G. A. Doria, Vita scritta da lui medesimo, cc. 48,

78; Ibid., m.r. X, 2, 50: Notizie su Andrea Doria, c. 365; Ibid., m.r. V, I, 24: Note biografiche sopra diversi

Doria, c. 7v; m.r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, cc. 50, 51; U. Foglietta, Istorie di

Genova, Genova 1597, IV, pp. 74 s.; Id., Elogi degli uomini chiari di Liguria, a cura di M. Stagheno,

Genova 1860, pp. 219-221; A. Mascardi, Congiura del conte G. L. Fieschi, Anversa 1629, passim; U.

Bonfadio, Annali della storia di Genova, Brescia 1759, pp. 257, 271, 281, 283, 321 ss., 343-347, 367,

403; F. Casoni, Annali di Genova, Genova 1800, I, pp. 135, 137; II, pp. 158 ss.; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1825, pp. 26, 30; J. Doria, La chiesa di S. Matteo, Genova 1860, p. 210; L. Capelloni, Vita di Andrea Doria Genova 1863, pp. 96 s., 102, 108 s.; E. Bernabò Brea, Sulla congiura di G. L. Fieschi, Genova 1863, passim; E. Callegari, La congiura del Fiesco secondo i documenti degli archivi di Simancas e di Genova, in Ateneo veneto, s. 4, XVI (1892), ad Indicem; C. Capasso, Paolo III e l'Italia, Camerino 1901, p. 396; L. Staffetti, Il libro di ricordi della famiglia Cybo, in Atti d. Soc. ligure

di stor. patria, XXXVIII (1910), ad Indicem; I. Luzzatti, Andrea Doria, Milano 1943, pp. 155, 168, 181 ss.;

V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 212 s., 217 (con bibl., II, pp. 101-105);

R. Bracco, Gianandrea Doria, Genova 1960, p. 215; I. Baccheschi, Bronzino, Milano 1973, p. 99; C. Costantini, La Repubblica di Genova, Torino 1978, pp. 39-42, 46 s., 64; E. Grendi, A. Doria, uomo del Rinascimento, in Atti d. Soc. ligure di st. patria, XCIII (1979), 1, pp. 109 ss.; P. Lingua, Andrea Doria, Novara 1984, ad Indicem.
(Da:
http://www.treccani.it/enciclopedia/giannettino-doria_(Dizionario-Biografico)/ )






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1 commento:

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