sabato 14 luglio 2012

Ananke ?

κατάβασις
                                   


Rilke

E u r i y d i k e
"Era radice ormai.
E quando a un tratto il dio
la trattenne e con voce di dolore
pronuncio’ le parole: si è voltato - ,
lei non comprese e disse piano: Chi?"
(...) //
Rainer Maria Rilke
(Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926)  
Orpheus. Eurydike. Hermes  
(In Rilke, Aus den Neven Gedichten, 1907 - Dalle Nuove Poesie, 1907). 
(Traduzione di Giaime Pintor con testo tedesco a fronte)
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Ἀνάγκη.
Ananke ?


Christoph Willibald Gluck - Orphée et Eurydice (Orpheus among the Blessed Spirits)
http://www.youtube.com/watch?v=LTd_fwRm0wU&NR=1
http://youtu.be/LTd_fwRm0wU



Euridice

"Mentre fuggiva da te a precipizio lungo il fiume,
non vide, la fanciulla già segnata da morte,
nell’alta erba, il serpente che abita le rive.
 

E il coro delle compagne Driadi riempì di lamenti
I monti più elevati; e piansero le vette del Ròdope
E gli alti Pangei e la terra guerriera di Reso, e
piansero i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia.
 

E consolando con la cetra l’amore perduto,
te dolce sposa, te sul lido deserto,
te al nascere, te al morire del giorno, egli cantava.
 

Ed entrò pure nelle gole del Tanaro, profonda
Porta di Dite, e nella selva cupa di nera paura,
e s’accostò ai Mani, e al loro re tremendo,
e a chi non sa addolcirsi alle preghiere umane.
 

E subito dal più profondo Erebo, commosse al canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.

E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
 

Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.

E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.

Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.

Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
 

“Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.

E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti”.

Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude".

(vv. 453 - 527, Georgiche, Virgilio, traduzione di S. Quasimodo)




3e tableaux
"...Elle décide de rester au Royaume del Morts." //

***

3 tableaux
Ella decide di rimanere nel Regno dei Morti.
Ἀνάγκη -
Ananke ?


Gluck - Orphée et Euridice (Bisanti)

 
ORPHEE ET EURYDICE (Gluck) | Roberto Alagna - Serena Gamberoni - Bologna 2008 
(Full - Complet)
Roberto Alagna - Orphée
Serena Gamberoni - Eurydice
Marc Barrard - Le Guide 

Stage Direction and Set Design : David Alagna
Musical direction : Giampaolo Bisanti
Chorus di Bologna : Andrea Vero
Costumes : Carla Teti
Light Design : Aldo Solbiati 
Directed by David Alagna and Arnaud Petitet

Production Alagna & Antydote - BelAir - Ed. Music. Symétrie - Teatro Comunale di Bologna & Opera National de Montpellier - Recorded in Bologna in January 2008. 
Available in DVD - Blueray - BelAirClassique








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Orfeo nella Contemporaneità


Downtown train - Tom Waits 

[Caricato su youtube da Grandepuf | 19/ott/2009 - Si ringrazia] 






  Euridice nella Contemporaneità
(Img ricavata da: http: www.youtube.com/watch?v=hZhW76LAnTY
Adattamento e qualificazione di GP)





LOSFELD

APPARATI



ORFICI

INNI


"Com'è noto, dell'antichissima poesia sacrale greca, quasi nulla è sopravvissuto (...) tardi rifacimenti rimane di tutta la poesia che la tradizione attribuiva a mitici vati e cantori come Orfeo, Museo, Lino, Eumolpo, ecc., nei quali i Greci individuarono le origini stesse della civiltà: soltanto presso Esiodo, vissuto in un ambiente di cultura più attardata, sono visibili numerose trace di questa antichissima poesia sacrale, che però, anche qui, si è quasi del tutto 'omerizzata'. E la forza della tradizione fece sì che l'innografia religiosa ufficiale, sia pure dotta e letteraria oramai, rimanesse epica di metro e di lingua fino a Callimaco, a Cleante, agli Orfici, a Proclo".


Modello ne fu Cleante (n. Asso-Troade, forse ma discutibilmente: 331), nel suo "Inno a Zeus", tramandatoci da Stobeo (Stobeo, v. 1-5, 32-39):


"Gloriosissimo fra gl'immortali, dio dai molti nomi, eterno onnipossente, /

Zeus, principio della natura che ogni cosa governi con la legge. /

salve! E' giusto che tutti i mortali ti celebrino, /

poi che siamo tua stirpe, riportando l'immagine di dio /

noi soli fra quanti animali vivono e si muovono sulla terra /

E tu Zeus che tutto largisci, signore del fosco nembo e della vivida folgore, /

salva gli uomini dalla ignoranza funesta /

e disperdila, Padre, lungi dall'anima; e concedine /

conoscenza, con la quale in giustizia ogni cosa governi. /

Onde, da te beneficati, noi ti ricambiamo con l'onorarti, /

celebrando le tue opere sempre, come conviene /

ai mortali: poi che non v'è per gli uomini pregio più grande /

né per gli dèi, che celebrare in giustizia la legge universale ed eterna". //


"Con questo inno, soffuso di alta e commossa spiritualità e non privo di empito poetico, Cleante lasciò un modello di preghiera che ebbe fortuna nella innografia filosofico-religiosa pagana (I versi aurei pseudo-pitagorici, gli Inni orfici, la Innodia segreta degli ermetici, gli Inni di Proclo) e non fu forse senza influsso sulla Gnosi cristiana".

(Raffaele Cantarella, La letteratura greca dell'età ellenistica e imperiale, 1968, Firenze, Sansoni, p. 137; su Cleante e per l'inno: 167-8; ).



Con la non forse del tutto superflua specificazione che l'Orfismo è cultura molto più antica (VIII-VI a.C.) dell'epoca cui si vorrebbero ascrivere gli Inni (collocabili per alcuni a non prima del IV d.C.), e l'avvertenza che dobbiamo al Rinascimento il corpus degli Inni orfici così come a noi oggi noti: quindi fortemente rimaneggiati se non proprio 'innovati', se ne pubblicano alcuni testi.




OPφEΩ∑ YMNOI

I.

Orfeo


"Apprendi, Museo, il rito venerando,
la preghiera migliore di tutte.


Zeus re e Terra e sante fiamme celesti
del Sole, e sacro splendore di Mene e Astri tutti;
e tu, Posidone che sostieni la terra, dalla chioma turchina,
e Persefone santa e Demetra dagli splendidi frutti
e Artemide saettatrice, fanciulla, e Febo invocato con grida,
che abiti il sacro suolo di Delfi; e tu che grandissime
prerogative hai fra i beati, Dioniso danzante;
e Ares dall'animo fiero e santa forza di Efesto
e dea nata dalla spuma, cui son toccati doni gloriosi;
e tu, re di sotterra, demone affatto straordinario,
e Giovinezza e Ritta e nobile forza di Eracle;
il grande vantaggio di Rettitudine e di Pietà
invoco e le Ninfe illustri e Pan grandissimo
e Era sposa fiorente di Zeus che tiene l'egida,
e Memoria amabile e le sante nove Muse
chiamo, e le Grazie e le Stagioni e l'Anno
e Leto dalla bella chioma, Tea e Dione venerabile
e i Cureti in anni e i Coribanti e i Cabiri
e insieme i grandi Salvatori, immortali figli di Zeus,
e gli Dei dell'Ida e il messaggero dei Celesti,
Ermes saldo, e Temi, vaticinatrice per gli uomini,
e Notte antichissima chiamo e Giorno apportatore di luce,
e Lealtà e Giustizia e l'irreprensibile Legislatrice,
e Rea e Crono e Tethys dal peplo scuro
e il grande Oceano, e insieme le figlie d'Oceano
e la forza molto soverchiante di Atlante e di Aion
e Tempo che sempre scorre e l'acqua splendente di Stige
e gli Dei miti, e tra loro la buona Provvidenza
e il Demone santo e il Demone rovinoso per i mortali,
i Demoni del cielo e dell'aria e dell'acqua
e della terra e di sotto terra e che abitano il fuoco,
e Semele e tutti i partecipanti alle feste di Bacco,
e Ino Leucotea e Palemone che rende felici
e Vittoria dal dolce suono e Adrastea signora
e il grande re Asclepio che dà lenimenti
e Pallade fanciulla che suscita la battaglia, e tutti i Venti
e i Tuoni e le parti dei condotti del cosmo delle quattro colonne
e la Madre degli immortali, Attis e Men invoco
e la dea Urania, e insieme l'immortale santo Adonis
e Principio e Fine — infatti per tutti è il più, grande
perché vengono benevoli con cuore lieto
a questo sacro rito e alla libagione santa".


(Per il testo dell'Inno 1: da: http://www.parodos.it/filosofia/orrin.htm - si ringrazia)
 
 
 
 
 
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24 commenti:

  1. Il cielo lontano era senza pietà.
    Un frate spuntò dall’orizzonte che l’umidità del mattino restringeva attorno alla tragedia. Subito si accorse che qualcosa germinava nell’aria. Aumentò l’andatura. Quando la vide ne ebbe paura. Così colossale e bella. Non ne vedeva la testa, coperta dalla tensione delle anche contro il cielo. Lo feriva soprattutto la nudità e l’impudica torsione. Ma la pietà ebbe il sopravvento, e corse verso il corpo mozzo senza sangue. Correva e non arrivava mai, e la donna ingigantiva, fino a che divenne enorme. Chi l’aveva uccisa?
    Il minuscolo frate si arrestò. Prese fiato a contemplare la sfida del caso. Eppure non era una visione. Quando ricominciò a camminare verso la donna gigantesca, si rese conto che non era di carne: a poco a poco i contorni del tronco si delineavano, mostravano la loro rozzezza, ma anche la capacità di fermare il movimento. Corse allora a toccare le sue forme di legno. La carezzava tecnicamente il frate era anche pittore — ne seguiva i segni primitivi e già la sentiva rivivere sotto la sua cura di artista.
    A lungo la contemplò, e man mano che il sole rendeva limpida l’aria, vedeva crescere la sua creatura nel tronco inerte.
    (...) Fece caricare il tronco su di un carro e lo portò nel suo studio: fu là che scaturì il miracolo e la donna rivisse come nell’alba del mattino caliginoso. Due accette, una più grande e una più piccola, appoggiate alla donna risorta, erano state gli arnesi dell’esorcista. La più grossa aveva mozzato il collo al torso riverso, e amputato più in su le gambe infrante. L’altra aveva tagliuzzato il ventre, accennato il seno, scolpito le ascelle, carezzato il tondo delle spalle: e la donna viveva.
    Mi guardai intorno, vidi quadri il cui segno violento pareva più frutto dei muscoli poderosi, contratti nell’eterna torsione della donna di legno, che del piccolo pittore, ciabattante intorno con una lampada in mano che di continuo mi accecava. Non trovavo riposo agli occhi che avrebbero voluto seguire con severità, le sculture dei Cristi riversi, il braccio alzato di una deponente, le altre pietose racchiuse in contorni molli per un abbandono vivo sul Cristo piegato in tre: la lampada non mi dava tregua.
    (...) Il pittore Tito si muoveva continuamente, non riuscivo a capire come non si scottasse tenendo la lampada sulla vite di metallo senza altro appoggio, il filo lungo si frenava ora sul cavalletto, ora sugli attrezzi dello studio. Tito dava uno strattone, la lampada guizzava nella sua mano e mi accecava: allora li vedevo all’interno i suoi segni poderosi a precipitare il contrasto dei colori tenui, accennati. A occhi chiusi sentivo l’odore della Sicilia venire dai segni folli che più si smaterializzavano più mi davano la sostanza di quella terra ora desolata ora polposa.
    Non capivo come l’autore di una così cantante irrealtà avesse potuto scolpire il ritratto quasi fotografico di una signora: anch’esso in legno, tenuto in disparte, ma pure guardato ogni tanto da Tito, come per un riposo: e me lo mostrava, forse per paura che io non capissi i suoi segni ficcanti, estremi, e avessi bisogno del pianerottolo di quel ritratto o per fermarmi a riflettere che egli sapeva anche dare la rassomiglianza.
    Ma c’era di più, entrambi capimmo in un attimo o meglio per un attimo, poi ce ne siamo dimenticati, che quel ritratto sereno di una donna bella era la restituzione della testa mozzata crudamente al tronco riverso. Chi l’avesse uccisa era dunque ancora un mistero, ma, certo, Tito l’aveva fatta rivivere: il tronco fermato nel suo fremito di morte, la testa più in là, sentimentalmente ricostruita, di prima della tragedia.
    Mi avvicinai meglio al ritratto: sotto al collo vidi improvvisamente risorgere la realtà che violentava la quiete di quel volto. L’aveva dunque anche uccisa. Tito, piccolo, ma onnipotente con il suo segno folle di ricerca e di ansia.
    La donna di legno (Giorgio Saviane)
    [Postato da "Ombra"]

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  2. Gian Paolo Grattarola, Dietro il Canto e l’Incanto, irreversibile è la Morte. (stralcio) "Nuovi spunti di riflessione sul mito eterno di Orfeo ed Euridice suggeriti dal recente allestimento de l’Orphée et Eurydice di Gluck realizzato dai fratelli Alagna: Direttore Giampaolo Bisanti. Regia di David Alagna Scenografia di Frederico Alagna, Teatro Comunale di Bologna. Dal lontano giorno in cui una mente ignota infuse vita ai personaggi di Orfeo ed Euridice soffiandovi dentro il proprio respiro, la loro tragica vicenda ha attraversato il tempo, riempiendo di sé le pagine e gli spettacoli di ogni epoca e di ogni luogo. Terreno irrinunciabile di innumerevoli frequentazioni artistiche e letterarie, questa favola senza tempo ha trovato la sua fonte di immortalità nel corso del secoli, attraverso puntuali rivisitazioni e preziose versioni, evocando ad ogni rinnovato impatto l’indomabile richiamo di una forte seduzione nell’animo umano. (…) Resistergli fu tormentoso perfino per colui che regge con ciglio superbo il regno degli Inferi, la voce penetrò fin dentro le sue viscere, dritta come una lama affilata, rendendolo inaspettatamente vulnerabile dinanzi alla richiesta di Orfeo. La restituzione della giovane defunta, nondimeno, fu condizionata al pesante fardello di un vincolo che obbligava l’eroe di Tracia a guidare l’ignara sposa nella lunga risalita, privandola e dell’ausilio di una parola e del conforto di uno sguardo. Una melodia né triste né allegra si distese in un clima di sospensione temporale e di febbrile attesa, fino al momento fatale in cui l’incauto sopravvento del desiderio lo privò definitivamente dell’agognato ricongiungimento. Il finale della storia non lascia dubbi sulla profondità della ferita che da allora si è aperta nell’animo del poeta e del musicista. Niente sarà più come prima, i suoi versi e la sua musica, come un tabarro d’angosce serpeggianti, prenderanno a vorticare tenebrosamente suscitando lo sdegno indignato delle Menadi sfrenate, che facendo scempio della testa mozzata di Orfeo relegarono per sempre il canto e la poesia tra le pieghe anguste della malinconica solitudine. Fin qui il mito. Le versioni di Virgilio e di Ovidio costituirono poi le prime fonti di approvvigionamento a cui attinse successivamente la fabula volgare, inaugurata da Poliziano e sviluppata soprattutto in ambito musicale da Monteverdi, Gluck,Offenbach e Stravinskij. Proprio alla trascrizione operata nel 1774 da Gluck, quell’Orphée et Eurydice che prevedeva tra l’altro un lieto fine, si sono ispirati in maniera eccessivamente libera David e Frederico Alagna. Le trasposizioni in epoca moderna di un’opera antica non sono esecrabili in assoluto, tanto più che forse, a detta di chi opera quel genere di sperimentazioni, obbediscono alla necessità di rendere più vicina alla sensibilità odierna una vicenda lontana nel tempo. Purché tuttavia la dissonanza non si trasformi in stridore o, come in questo caso, in aperta dissacrazione di una composizione classica. Lo spettacolo, realizzato dal Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con l’Opera national de Montpellier, è funestata da un approccio irriverente e dissacrante, in cui la drammaturgia corrode l’atmosfera atemporale del mito in maniera irriverente e provocatoria. Facendo leva su di una rappresentazione di forte impatto emotivo, regista e scenografo stravolgono radicalmente la scrittura di Gluck, ricorrendo con reiterata ossessione ai toni più crudi ed efferati. Emblematica risulta la ricostruzione del mondo degli inferi, in cui un’orrida esposizione di penzolanti cadaveri allineati evoca il cupo scenario gotico di un macabro obitorio. (...) Forse l’unico merito di questo nuovo allestimento risiede nel fatto di offrire, ancora una volta, l’opportunità di riflettere sulla solitudine con cui il poeta canta, ama, lotta e muore. Da solo discende nel mondo degli inferi e da solo ne risale, pagando un pesante tributo alle sue prerogative prive di attinenza con l’attuale contesto sociale."// (Da: http://www.lankelot.eu/musica/gluck-christoph-willibald-orphee-et-eurydice.html)

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  3. Luca Mantovanelli, L’anelito illuminista di Orfeo. (21 febbraio 2007) - Orfeo e Euridice - Ferrara, Teatro comunale - 2 e 4 febbraio 2007.
    - Il 2 e il 4 febbraio scorsi è andato in scena al Teatro Comunale di Ferrara un nuovo allestimento dell'Orfeo e Euridice di Gluck, con la regia del celebre Graham Vick. - “fra tutte le composizioni inerenti il mito, soltanto l'Orfeo di Gluck risulta oggi essere l'opera più ascoltata, più eseguita e più allestita. Dal 1762, anno della sua prima rappresentazione a Vienna, l'opera ha avuto una fortuna praticamente ininterrotta. L'Euridice di Jacopo Peri e Rinuccini e la "Favola drammatica" omonima di Caccini (entrambe dell'anno 1600) risultano al confronto composizioni "di nicchia"; la "Toccata" di Monteverdi è nota più come segnale radiofonico che come brano introduttivo dell'Orfeo (del 1607), come pure il can can di Offenbach è celebre più come brano a sé stante che come brano appartenente all'Orphée aux enfers (Opéra-féerie del 1858). In fondo, anche l'Orfeo ed Euridice di Gluck è noto soprattutto per un'aria (Che farò senz'Euridice), ma l'opera nel suo complesso presenta delle caratteristiche di compattezza e di concisione che unite alla preziosità della musica ne fanno un gioiello artistico di rara bellezza. La preziosità della musica di quest'opera consiste nell'impiego di un linguaggio "alto", di una sapientissima gestione della "retorica degli affetti" (che trae le sue origini dal teatro seicentesco), nell'uso di una ben differenziata gamma di colori, luci, timbri, ombre, chiaroscuri, atmosfere (il sentimento del Sublime è qui generato anche dalla raffigurazione del Terribile, secondo l'inedita prospettiva di Edmund Burke). (…) Non da ultimo, l'Orfeo di Gluck è anche il "sintomo" musicale par excellence di quella svolta (una vera e propria riforma in musica) che conduce ad un progressivo allontanamento dall'opera metastasiana (considerata da Gluck e da Calzabigi ormai ampollosa e artificiosa). (…) La regia di Vick nell'allestimento per Ferrara riflette in pieno quella semplicità e asciuttezza proprie del capolavoro di Gluck e Calzabigi restituendo al pubblico il "palpito" del sentimento e la "pulsazione" del ritmo dell'azione. L'idea cardine consiste nel mettere in piena evidenza il coro (l'ottimo "Voci Barocche" del Teatro Alighieri di Ravenna tra l'altro magnificamente guidato da Elena Sartori), utilizzandolo anche sul piano coreografico: i coristi sottolineano continuativamente attraverso i movimenti e i gesti e i ballerini attraverso la danza (danze astratte, simboliche) l'andamento della vicenda e i contenuti del testo in un gioco ambiguo tra Natura e Artificio, Mondo sensibile e Mondo del sovrasensibile. Vick pare quasi voler sfidare il pubblico a discernere in quei gesti e in quei movimenti il mondo della Natura da quello dell'Artificio: il gesto astratto è necessariamente innaturale, e quindi legato all'Artificio e al mondo del sovrannaturale? Oppure si può osservare tutto in modo rovesciato, e intravedere in quei movimenti la vera Natura e il vero mondo del Sensibile? Un coro composto di giovani interpreti (perennemente scalzi), che fin dal loro primo apparire in scena vuol quasi suggerire un suggestivo "entrare" di tutti noi nel mondo di Orfeo ed Euridice, mondo sospeso fra fisicità (sensualità) e inconsistenza (spiritualità). Per il resto, una regia scarna e allusiva, quasi minimalista, che garbatamente sapeva anche indirizzare verso il senso iniziatico della vicenda. Claudio Astronio ha guidato con sapienza e intelligenza la valida Orchestra Barocca di Bolzano "Harmonices Mundi". Il controtenore siriano Razek-Francois Bitar, Orfeo, Marta Vandoni Iorio, Euridice, e Roberta Frameglia, Amore, sono stati salutati dal pubblico di Ferrara con un certo calore."// (Da: http://www.wanderer.it/spunti_orfeo.htm) (Prima parte)

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  4. Massimo Bertoldi. Recensione a: Orfeo, variazioni sul mito - A cura di Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero - Venezia, Marsilio, 2004, pp. 153. ISBN 88-317-8445-5
    La formula Variazioni sul mito - ossia un confronto tra drammaturgia antica e moderna attraverso opere generalmente teatrali trattanti lo stesso soggetto mitologico, adottata dalla casa editrice Marsilio per una serie di volumi dedicati a Medea, Antigone,Elettra e Fedra - si arricchisce di un nuovo e prezioso contributo rivolto al personaggio di Orfeo. Affidato alla cura di Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero, il volume raccoglie quei contributi più significativi e di pregevole fattura che permettono di seguire le diverse interpretazioni maturate nel corso dei secoli in merito a questo mitico cantore della Tracia, protagonista, con la sua arte, di una sfida nell'Ade per riportare tra i vivi l'amata sposa, la ninfa Euridice, morta per il morso di un serpente, a patto che non si volti a guardarla in viso durante il cammino verso la terra. Ma Orfeo non resiste, trasgredisce e si volta, perdendo così
    Euridice per sempre. La divergenza tra concezioni antiche e moderne, poi trasferite nelle rielaborazioni teatrali, sta nelle risposte che vogliono spiegare il gesto nonostante il divieto. Orfeo agisce in questa maniera in quanto spinto dal troppo amore verso Euridice oppure per eccesso di amore di se stesso? Scendere e risalire dall'Ade è un privilegio riservato ai più grandi fra gli eroi, come Eracle e Odisseo. Per gli scrittori antichi Orfeo fu un mito essenzialmente letterario, che coniugava musica e poesia, e la sua vicenda fu trasferita in un contesto fiabesco in cui la resurrezione si presenta di fatto impossibile e, di conseguenza, la tragica conclusione risulta scontata. L'interpretazione proposta da Virgilio nelle Georgiche si mantiene fedele allo schema antico e aggiunge soltanto il pastore Aristeo, impegnato a corteggiare senza successo la bella Euridice. Da questo modello si enuclea la rielaborazione fatta da Ovidio nelle Metamorfosi, che si caratterizza per una descrizione più amplia dei paesaggi e per l'uso della parola da parte dei personaggi. L'elemento innovativo è costituito dall'approfondimento del tema dell'omosessualità, taciuto invece da Virgilio, che sprigiona violenza e vendetta. La seconda e reale discesa nel regno delle tenebre da parte di Orfeo avviene con la morte. Il poeta cerca Euridice nei campi degli inferi, la ritrova e la abbraccia con passione: solo la morte di entrambi gli amanti garantisce la loro eterna unione. Anche Angelo Poliziano nella Fabula di Orfeo, testo ricco di suggestioni da Virgilio e da Ovidio, immagina alla fine della vicenda le Baccanti scatenate in un canto carnascialesco ad accompagnare lo smembramento subito da Orfeo.
    Da: http://www.drammaturgia.it)

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  5. Massimo Bertoldi. Recensione a: Orfeo, variazioni sul mito - A cura di Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero - Venezia, Marsilio, 2004, pp. 153. ISBN 88-317-8445-5
    Orfeo.
    Con Orfeo. Euridice. Hermes, poesia giovanile di Rainer Maria Rilke, si inaugura il ciclo delle riprese novecentesche; scritta nel 1904, fu considerata da Josif Brodskij "la più grande opera di questo secolo". Orfeo viene descritto, avvolto in un mantello azzurro, mentre corre in salita verso la luce, con lo sguardo proteso in avanti, inseguito a distanza da due personaggi "muti" e "con passo lieve": sono Euridice ed Hermes. Ma l'amata vive ormai nell'oblio della morte, mentre Orfeo è vivo. Finisce così la parabola letteraria della storia d'amore come motore narrativo del mito e inizia il mito del poeta e della sua libertà.

    Orphée di Jean Cocteau ed Eurydice di Jean Anouilh (testo purtroppo trascurato dall'antologia, ma ben ricordato da Andrea Rodighiero nel suo contributo)rappresentano due fondamentali esempi dell'evoluzione novecentesca del mito. Cocteau, in questa sua prima produzione teatrale del 1926, impasta l'antico con il presente seguendo l'intera storia di Orfeo fino allo sbranamento finale. Assolutamente contemporaneo il messaggio di questa tragedia: "le invenzioni, artifici, magie – sottolinea la Ciani nell'Introduzione – non servono a evitare il logoramento che la vita infligge ai sentimenti come alla creatività, alla poesia come all'amore". E' proprio lo stesso Orfeo, poeta inquieto, che capovolge l'antica immagine di sé, quando si libera di Euridice due volte, la prima per distrazione e disamore, ma la seconda per lucida intenzione ("Ho voltato la testa apposta"). Il voltarsi non per follia ma per calcolo, disfarsi di Euridice per recuperare e rinnovare l'ispirazione poetica, è la strada percorsa,oltre che da Cocteau, anche da Cesare Pavese e da Gesualdo Bufalino. Tratto dai Dialoghi pavesiani, L'inconsolabile, già dal titolo, riflette la spiritualità novecentesca di Orfeo: il suo atteggiamento verso Euridice è un atto di consapevole rifiuto, che il poeta vive come esperienza rivolta alla ricerca di se stesso e della propria identità creativa. Infine il racconto di Bufalino, Il ritorno di Euridice, angola la prospettiva narrativa dalla parte della fanciulla la quale narra che, mentre aspettava sconsolata la barca di Creonte che l'avrebbe riportata indietro, avverte un disagio fisico simile ad un dolore, si concentra, razionalizza e giunge ad una dolorosa rivelazione: "Orfeo s'era voltato apposta".
    Massimo Bertoldi
    indice del volume
    Indice
    Introduzione di Maria Grazia Ciani
    I. Virgilio. Georgiche IV, 453-527
    II. Ovidio. Metamorfosi X, 1-85, XI, 1-66
    III. Angelo Poliziano. Fabula di Orfeo
    IV. Rainer Maria Rilke.Orfeo, Euridice, Hermes
    V. Jean Cocteau. Orfeo
    VI. Cesare Pavese. L'inconsolabile
    VII. Gesualdo Bufalino. Il ritorno di Euridice
    Gli autori e i testi
    Il mito di Orfeo di Andrea Rodighiero
    Bibliografia
    (Da: http://www.drammaturgia.it)

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  6. PERCHE’ ORFEO SI E’ VOLTATO? di Roberta Borsani
    Uno dei miti più belli che dell’età antica è quello di Orfeo ed Euridice. Uno dei più profondi anche, dei più misteriosi e refrattari a lasciarsi abbracciare da spiegazioni che si pretendono esaustive. Al di là degli sforzi interpretativi e degli approcci, la domanda “perchè Orfeo si è voltato?” può considerarsi ancora aperta.
    Sono state date, com’è noto, molte risposte. Non poche rivelano intelligenza profonda, aprendo ad ulteriori problematiche di carattere spirituale, psicologico, e molto altro ancora. Il mito tocca il rapporto tra l’uomo e Dio, tra l’anima e l’animus, tra l’innocenza e il peccato, tra la poesia e la verità dello spirito…
    Vediamole un po’ queste risposte, la cui complessità non può non rivelare il grado di complessità e di consapevolezza di una cultura e di una società.
    Orfeo che si volta e perde per sempre Euridice è stato interpretato come un’altra figura di Psiche, che non resiste alla tentazione di contemplare il volto dello sposo divino (il quale le ha imposto di non cercare mai di vederlo) e infrange il divieto cadendo in disgrazia. E’ insomma figura dell’hybris (tracotanza) umana che troppo osa, pretendendo riguardi specialissimi (la sconfitta della morte,la visione estatica) dagli dei della cui fedeltà però dubita. E proprio in questa mancanza di fiducia sta il peccato, l’inizio della dannazione.
    Ma allora, perché a Psiche è concesso, dopo un lungo e sofferto cammino iniziatico, di riabbracciare lo sposo e di poterlo contemplare per sempre? Forse perchè il dio di Psiche è Eros, mentre quello di Orfeo è Ade, vendicativo e ombroso?
    Per altri interpreti, Orfeo è invece (o anche) l’immagine allegorica dell’anima sensibile che cade vittima della sua ottusa concupiscenza, impermeabile agli inviti dello Spirito e incapace di attenderne la luminosa epifania.
    E in questa propsettiva, cosa sta a significare la poetica sposa Euridice, uccisa dal morso di un serpente mentre fugge dalle bramosie di Aristeo? Forse la caduta, la perdita comunque colpevole dell’Eden da cui solo la Grazia può salvare?
    In tal caso la sciagura di Orfeo ci insegnerebbe allegoricamente che nessuna grandezza umana salva: solo Dio. Il Dio che non ama mezze misure e chiede molto per dare tutto. Orfeo combatte ma perde la sua battaglia contro la morte, simile in questo al glorioso Gilgamesh mesopotamico (anche lui beffato dal serpente). Nessuno di loro è il Cristo, il predestinato a sconfiggere la morte e a scardinare le porte dell’Inferno traendone fuori le anime.
    Oppure hanno ragione certi gnostici secondo i quali è Euridice stessa a decretare la sua fine? “Saputo” il senso del peccato (saperlo, vedendolo riflesso in Aristeo, è pur sempre un assaporare, un perdere l’innocenza), gustata l’atmosfera del mondo dei morti, Euridice è troppo compromessa, troppo toccata dall’ombra per amare e desiderare ancora la luce del mondo dei vivi.
    Lo intuisce, da poeta, Rainer Maria Rilke, che nel suo Orfeo Euridice Hermes sottolinea l’estraneità e la disaffezione della giovane nei confronti del regno dei vivi. Meglio per lei la tenebra, i luoghi sotterranei
    “Ormai non era più la donna bionda
    che altre volte nei canti del poeta
    era apparsa, non più profumo e isola
    dell’ampio letto e proprietà dell’uomo.
    Ora era sciolta come un’alta chioma,
    diffusa come pioggia sulla terra,
    divisa come un’ultima ricchezza.
    era radice ormai...”
    (trad. di Giaime Pintor)
    Euridice diventa così agli occhi di alcuni interpreti una sorta di Lilith greca, che Orfeo non potrà e non dovrà mai più avere, se vuole salvarsi l’anima e compiere il cammino iniziatico, il solo che conduce al Bene. Lei stessa si lascia risucchiare all’indietro dal regno d’ombra al quale ormai appartiene. Resterà lì, a desiderare e forse a invidiare la vita il calore e la luce che il serpente le ha tolto per sempre. Vittima fino a che punto?
    (Da: http://lafatacentenaria.blogspot.it/2009/02/perche-orfeo-si-e-voltato.html) (febbraio 25, 2009)

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  7. Commento di Gianni De Martino — febbraio 10, 2010 @ 7:13 pm - Figura di confine, Orfeo si spinge ai limiti dell’umano. Nell’episodio di Euridice, ottiene persino la possibilità di riportare in vita la donna morta. A un patto: che nel tragitto tra le profondità e le soglie dell’uscita dall’Ade, non si volti. Perché Orfeo si volta ? Fra le tante ipotesi, possiamo dire: perché non poteva farne a meno. C’è infatti una sproporzione enorme tra la possibilità concessagli da Ade di riportare in vita un morto e l’apparente facilità con cui può essere soddisfatto il patto, quello di non voltarsi. Dunque Orfeo non può vedere Euridice. Ma può un amante essere messo nella condizione di non poter vedere e quindi non poter riconoscere e quasi odiare ciò che dice di amare con il canto e persino con la pretesa di potersi intrufolare vivo nel fondo del Tartaro ? In realtà ( che terribile espressione!), il patto non è così agevole da soddisfare come sembra. Anche Ade è infatti sottoposto alla legge eterna, più forte di qualsiasi incantamento o patto. (...)In effetti Orfeo non porta con sé per la mano un’Euridice viva e vegeta, ma trasporta solo l’enorme possibilità di riportarla alla vita, nel momento stesso in cui porta, in sé, il lutto di una donna morta. Da quanto tempo Orfeo porta in sé il lutto di una donna ? Può l’amore essere scisso dalla conoscenza ? Può un amante non poter vedere l’amata ? Così, proprio alle soglie dell’uscita dall’Ade, alle prime luci del giorno, spinto dalla superiore forza dell’amore, Orfeo, irragionevolmente, si volta. E la legge si attua: Euridice ritorna tra le ombre, il mortale non trionfa sulla morte e il kosmos è salvo!
    (...)
    Il mito sembra avere una funzione politica, legale. Ricorda infatti gli invalicabi limiti dell’umano. E insegna che amore e conoscenza sono inseparabili, che non si ama, per così dire, al buio e non importa chi o cosa. E dice, ancora una volta, che i mortali sono mortali; e che in ogni coppia di amanti, inevitabilmente – nonostante i sofismi, la dialettica, il Canto per quanto eccelso o la Poesia – uno dei due vedrà morire l’altro o l’altra. Così, ai confini del Tartaro incognito, tra ombre moleste, la domanda fondamentale sarà : « Chi o che cosa ho amato ? ».

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  8. Orfeo in Herbert Marcuse, Eros e Civiltà.
    Recensione di: Rocco Bellantone, mercoledì 13 agosto 2008
    Eros e civiltà: crocevia tra marxismo, psicoanalisi e cultura americana (stralcio)
    Nell’ampio spazio di riferimenti culturali di cui dispone Marcuse si rifà adesso alle figure mitologiche di Orfeo e Narciso, che presenta come i conciliatori di Eros e Thanatos, amore e morte. Al cruciale passaggio dal principio di prestazione al nuovo principio di realtà corrisponde nella mitologia classica la morte di Prometeo e la resurrezione di Orfeo e Narciso. Queste immagini sono conservate nel nostro inconscio, ma rappresentano sempre un oggetto di desiderio. Orfeo e Narciso conciliano natura e uomo, rappresentando una sublimazione non repressiva. Il mito di Orfeo è strettamente legato alla credenza di una sopravvivenza dopo la morte. Poeta e cantatore dai grandi poteri magici, viene considerato, nel gergo mitologico, il mediatore tra il divino e il terrestre, poiché colui che ascolta il suo canto e ne scopre il significato è destinato ad un’esistenza al di là della morte. L’erotismo di Narciso non è pura contemplazione, ma coinvolge il mondo naturale placandosi in un’immagine di morte che è serenità e sonno. L’idea di morte evocata da Narciso è quella di una morte non disgiunta dal flusso vitale. Con esso la libido non è solo l’immagine egoistica dell’autoerotismo, ma contiene un nuovo rapporto libidico tra Io e mondo, in grado di trasformare entrambi in un nuovo modo di essere. Prometeo è invece il principe della forza, del fuoco e del lavoro. Ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, consentendo loro di dominare la terra. Sul suo mito si radica la civiltà occidentale. Orfeo e Narciso da un lato, e Prometeo dall’altro, incarnano dunque due principi di realtà radicalmente differenti. L’amore, il canto e la liberazione della libido, si scontrano con la forza, il lavoro e la violenza. Lungi dal considerare queste evocazioni come una sorta di caduta del pensiero nella mitologia, Marcuse si rivolge a questi miti perché essi appartengono originariamente all’uomo come figure del suo destino. Orfeo è un eroe civilizzatore che unisce l’arte alla libertà e alla cultura, così come Narciso protesta contro l’ordine repressivo, che affida alla sessualità solo il compito procreativo. Il loro nemico è Prometeo, che incarna il falso eroismo della produzione fine a sé stessa, il principio di prestazione che regola la società tecnologicamente avanzata.
    (…)
    Lontano dal voler prefigurare una società in cui vi sia una sorta di esplosione delle pulsioni libidiche, Marcuse vede nell’eliminazione della repressione addizionale (che libera la libido dalla sua finalizzazione genitale-riproduttiva), nella conseguente estensione dell’erotizzazione a tutto il corpo e alla personalità dell’individuo, e nella promozione di una nuova razionalità libidica, le basi su cui potrà ergersi la civiltà anti-repressiva. In questo nuovo stato di cose, l’Eros liberato potrebbe realizzarsi anche in attività socialmente utili oltre che piacevoli, investendo tutti i livelli di sviluppo dell’uomo, sino a divenire una cosa sola con l’Agape, ossia l’amore altruistico, e divenendo così esso stesso non il nemico ma il creatore della realtà.
    L’analisi marcusiana prende adesso le sembianze di una vera e propria utopia, assumendo dei contorni metafisici al momento dei capoversi finali di Eros e civiltà. Riprendendo lo scontro mitologico tra Eros e Thanatos, tra amore e morte, Marcuse profetizza per essi una serena armonia biologica. La morte viene intesa in quest’ottica non come serafico spettro dal quale rifuggire, bensì come evento naturale da vivere con tranquillità interiore, in quanto momento risolutivo supremo della realtà umana (Casini, 1981, p.163). In ciò sta il Grande Rifiuto di Orfeo, posto da Marcuse a conclusione di Eros e civiltà.
    (Da: http://scrivolibero.blogspot.it/2008/08/eros-e-civilt-crocevia-tra-marxismo.html)

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  9. Freud: lo spettro del passato:
    Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo: Se non potrò muovere le potenze del cielo, solleverò quelle degli inferi. Questo verso virgiliano potrebbe essere messo a esergo dell’intera opera di Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, scienza, terapia, concezione filosofica assolutamente novecentesca.
    Nella ricca e complessa opera e storia della formazione freudiana, che porta a ripensamenti e riscritture spesso profonde, il concetto di tempo assume una curvatura ben precisa, che potremmo definire con il tentativo freudiano di definire un’archeologia del soggetto. Prendendo in esame le opere del periodo della Metapsicologia (1915) si può notare che a partire dalla definizione dell’inconscio, come luogo delle pulsioni che mirano a scaricare il loro investimento libidico, alla sistemazione nella seconda topica della struttura di Io/Es/Super-io, al chiarimento dei meccanismi di rimozione, di censura, di sublimazione delle pulsioni sessuali e di investimento simbolizzante, lo sguardo neutro dell’analista è sempre rivolto all’indietro, nella vita trascorsa del paziente, alla ricerca di atti mancati, lapsus, frammenti di sogni rivelatori di traumi e sentimenti avversi che sono la vera origine nascosta delle nevrosi.
    Nell’opera forse più famosa di Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), il processo interpretativo del testo del sogno, raccontato liberamente dal paziente, viene utilizzato per la costruzione del passato rimosso. Lo sguardo psicoanalitico è dunque, come quello di Orfeo, sempre rivolto all’indietro, nel tentativo di liberare l’inconscio dalle sue cristallizzazioni e quindi di predisporre le migliori condizioni della vita conscia. Così anche nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901) tale procedimento retrospettivo e archeologico è applicato ai lapsus, alle dimenticanze, agli involontari errori linguistici, agli atti mancati e ai motti di spirito che costellano la vita quotidiana: da qui inizia l’allargamento dei confini della psicoanalisi che giunge ad abbracciare il rapporto del soggetto col mondo: “Ora l’aria è così piena di fantasmi/che nessuno saprà come evitarli” (Goethe, Faust).
    Nelle nevrosi ossessive, nelle malattie psichiche ma anche nelle situazioni storiche della contemporaneità (la carneficina della prima guerra mondiale!), Freud nota il ripetersi costante di certi meccanismi psichici: si tratta della coazione a ripetere che va al di là del principio di piacere, cioè della ricerca della soddisfazione. Vi sono pulsioni più originarie, afferma Freud nell’ultima parte della sua speculazione: l’una regressiva, tendente alla cristallizzazione del passato, la pulsione di morte; l’altra progressiva, desiderante, tesa al futuro, la pulsione di vita (S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920).
    (Da: http://tempos.it/contentvis/bio_vis_6.html)

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  10. Maria Allo
    ‘”I SONETTI A ORFEO” di Rainer Maria Rilke
    “Esiste davvero il tempo, il distruttore? / Quando, sul monte immobile, spezzerà il castello? / E questo cuore, che appartiene infinitamente al dio, / quando lo violenterà il demiurgo? / Sono davvero così angosciosamente fragili, / come il destino vuole farci intendere? / L’infanzia profonda e promettente, / si fa – poi – silenziosa nelle radici?” // (Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, versi tratti da sonetto XXVIL)
    Il mito di Orfeo è da epoche lontane il mito stesso della poesia, ed evoca, “la soglia che separa vita e morte, prossimità e lontananza, luce e ombra, perdita e possesso, ma soprattutto significato e suono”. È questo il senso che emerge dal ciclo dei cinquantacinque sonetti scritti da Rainer Maria Rilke tra il 2 e il 23 febbraio 1922, negli stessi giorni in cui, dopo lunghi anni di attesa, anche l’opera “maggiore” – le Elegie Duinesi – trovava il suo definitivo compimento.“I sonetti a Orfeo”, il movimento, l’armonia, la musica che trasforma la caducità del mondo ma allo stesso tempo è forma caduca anch’essa che subito svanisce dopo aver tracciato una linea di grazia e bellezza. Dunque in questa piena consapevolezza Rilke chiede soccorso al divino: a Orfeo. La narrazione del dio è necessariamente apparenza, ma la sua pregnanza consiste nel fatto di definirsi come espressione dell’indicibile, del divino, del mistero. La poesia di Orfeo, come dice Heidegger, “sorge dall’estasi e dalla mania, mostrando con profondità massima il legame fra le due divinità che la governano; la poesia orfica ha contenuto dionisiaco e forma apollinea”. La conoscenza, significato profondo della figura di Orfeo, ha il suo luogo nella parola che tenta l’indicibile, che si muove sul bordo dell’inesprimibile, che tenta di restare in prossimità del mistero delle cose. E le parole nei “Sonetti a Orfeo” sono parole folli, oscure, azzardate, che rimangono sul filo dell’inconoscibile. I “Sonetti a Orfeo” sono il grande poema della conoscenza umana che sa di non poter attingere al vero e all’immortale. Sono il poema dell’uomo destinato alla morte, che pure vive. Rilke stesso ci dice questo nel Sonetto XIII parte II: “Qui tra effimeri sii, nel regno del declino/un calice squillante che squillando già s’infranse./Sii, e la condizione del Non-Essere allo stesso tempo sappila”.Cosa può fare ancora, dopo di Voi, un poeta, Un maestro (Goethe, per esempio) lo si può superare, ma superare Voi -significa (significherebbe) oltrepassare la Poesia.” Così scriveva Marina Cvetaeva a Rilke, identificando in lui la poesia stessa, il poeta assoluto e insuperabile della nostra epoca. Eppure questa poesia altissima ha essa stessa un vertice: I sonetti a Orfeo. I sonetti, come le Elegie dello stesso Rilke, come i grandi testi di Eliot e di Montale, non sono un mero momento epifanico. Sono un vero e proprio racconto: tessono la trama degli eventi, dell’intreccio apparentemente incomprensibile delle cose, proponendo un’immagine visibile di quel logos, di quella ifferenza, che ci presenta il mondo nella sua ultima verità. Infatti Orfeo, il dio del canto, è il dio che canta questo nostro mondo: il mutare delle cose e degli uomini che abitano presso di esse.
    La base pagana di Rilke è sempre venata o commista a una religiosità totale nella quale è compreso e inteso il messaggio cristiano. Orfeo racchiude in sé la natura dei due regni: quello visibile e quello invisibile. Così può cantare le vicende dei vivi e dei morti, frequentare indifferentemente questi e quelli, che lo ascoltano e ne traggono gioia. Ma la natura inanimata, le divine cose, assorbono tanto da restarne impregnate: e la musica degli alberi è così sensibile che Rilke intona un sonetto intero, invitando le fanciulle a danzare quei ritmi ardenti e variopinti. // M.A
    (Da: https://nugae11.wordpress.com/recensioni/i-sonetti-a-orfeo-di-rainer-maria-rilke/)

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  11. LA FONTANA DI RILKE
    C’è in ogni immagine di Rilke qualcosa di perlaceo e di azzurro, come il rivelarsi dell’immobile anima luminosa delle cose, della statica essenza del loro movimento e della loro vita. Prima le cose del mondo non esistevano, ora, nell’immagine, si son maturate e compiute «in chiusi, chiari e irraggiungibili cristalli», e tornano così alla loro origine, così rinascono, o meglio nascono davvero per la prima volta, «nel seno delle antiche sorgenti».
    E rimangono là, assorte, dormienti, ferme nello stupore del mondo. « – E quasi una fanciulla era. Da questa – felicità di canto e lira nacque –, rifulse nella trasparente veste – primaverile e nel mio udito giacque. – E in me dormì. Tutto fu il suo dormire: – gli alberi che ammiravo, le distese – sensibili, le grandi praterie – presenti e lo stupore che mi prese». (Dai Sonetti a Orfeo, trad. Pintor).
    Prima c’è soltanto la notte e da essa le cose e gli spiriti tendono le mani alla vita: attendono la loro nascita in silenzio: « – In queste cupe notti di bufera – imbatterti tu puoi, rasente i muri, – in spiriti che un dì saranno vivi»… «Ma restano in silenzio, al par dei morti, – gli spiriti che un dì verranno al mondo». (In una notte di bufera, trad. Errante).
    E forse proprio così: le cose del mondo non vivono, o vivono di una falsa vita, di cui devono morire, per ritrovare davvero se stesse nel seno dell’antica sorgente: è il mito della morte di Orfeo: «Solo perché, sbranato, lo stormo feroce si sperse, oggi, udiamo: e una bocca ha in noi la divina natura» (Son. a Orfeo, trad. Errante). Ed è, mi sembra, uno dei temi fondamentali di Rilke, e quasi il segreto delle Elegie duinesi: «Terra, non è questo dunque il tuo volere: in noi risorgere invisibile? Terra! Invisibile! Quale è, se non metamorfosi, il tuo fermo comando?». (Nona elegia, trad. Traverso).
    (Da: http://rebstein.wordpress.com/2009/03/22/il-pezzullo-di-db-xii-la-fontana-di-rilke/)

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  12. Enzo Paci, «Giornale di mezzogiorno», 3.6.1946. LA FONTANA DI RILKE
    C’è in ogni immagine di Rilke qualcosa di perlaceo e di azzurro, come il rivelarsi dell’immobile anima luminosa delle cose, della statica essenza del loro movimento e della loro vita. Prima le cose del mondo non esistevano, ora, nell’immagine, si son maturate e compiute «in chiusi, chiari e irraggiungibili cristalli», e tornano così alla loro origine, così rinascono, o meglio nascono davvero per la prima volta, «nel seno delle antiche sorgenti».
    E rimangono là, assorte, dormienti, ferme nello stupore del mondo. « – E quasi una fanciulla era. Da questa – felicità di canto e lira nacque –, rifulse nella trasparente veste – primaverile e nel mio udito giacque. – E in me dormì. Tutto fu il suo dormire: – gli alberi che ammiravo, le distese – sensibili, le grandi praterie – presenti e lo stupore che mi prese». (Dai Sonetti a Orfeo, trad. Pintor).
    Prima c’è soltanto la notte e da essa le cose e gli spiriti tendono le mani alla vita: attendono la loro nascita in silenzio: « – In queste cupe notti di bufera – imbatterti tu puoi, rasente i muri, – in spiriti che un dì saranno vivi»… «Ma restano in silenzio, al par dei morti, – gli spiriti che un dì verranno al mondo». (In una notte di bufera, trad. Errante).
    E forse proprio così: le cose del mondo non vivono, o vivono di una falsa vita, di cui devono morire, per ritrovare davvero se stesse nel seno dell’antica sorgente: è il mito della morte di Orfeo: «Solo perché, sbranato, lo stormo feroce si sperse, oggi, udiamo: e una bocca ha in noi la divina natura» (Son. a Orfeo, trad. Errante). Ed è, mi sembra, uno dei temi fondamentali di Rilke, e quasi il segreto delle Elegie duinesi: «Terra, non è questo dunque il tuo volere: in noi risorgere invisibile? Terra! Invisibile! Quale è, se non metamorfosi, il tuo fermo comando?». (Nona elegia, trad. Traverso).
    (Da: http://rebstein.wordpress.com/2009/03/22/il-pezzullo-di-db-xii-la-fontana-di-rilke/)

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  13. aditus Dice:
    marzo 22, 2009 alle 11:33 pm | Replica
    Ricordiamo ora un poeta che sull’esistenzialismo ha avuto un’influenza direttamente riscontrabile. Questo poeta è Rainer Maria Rilke, al quale si richiamano sia Heidegger che Marcel.
    Come Hölderlin anche Rilke concepisce la poesia come fondamento dell’esistenza. Prima della poesia il mondo dell’esistenza è il mondo della notte, è il mondo dell’angoscia esistenziale che Rilke ha descritto nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Quest’esistenza anteriore alla poesia è negativa, è il regno dei morti che attendono di nascere. Soltanto la poesia dà una vita e un ordine all’esistenza negativa. Noi facciamo nascere le cose nuove nella loro realtà quando finalmente ci meravigliamo di fronte ad esse. Una volta nate, attraverso la magìa della parola, rimangono ferme ed assorte di fronte a noi, di fronte al nostro stupore. Leggiamo nei Sonetti ad Orfeo i seguenti versi, che ci parlano della nascita di una fanciulla per virtù della poesia:
    E quasi una fanciulla era. Da questa
    felicità di canto e lira nacque,
    rifulse nella trasparente veste
    primaverile e nel mio udito giacque.
    E in me dormì. Tutto fu il suo dormire:
    gli alberi che ammiravo, le distese
    sensibili, le grandi praterie
    presenti e lo stupore che mi prese.
    La trasformazione o la metamorfosi delle cose che ancora non vivono nella loro vera vita è possibile però soltanto se le cose muoiono nella loro negatività. Così Orfeo è soltanto perché muore che può diventare il creatore della poesia, che può far sì che noi udiamo le cose, che impariamo ad ascoltare, che la divina natura maturi in noi ed in noi trovi la sua voce:
    Solo perché, sbranato,
    lo stormo feroce ti sperse,
    oggi udiamo: e una bocca ha in noi
    la divina natura.
    Il mito orfico è dunque un mito di riconquista dell’esistenza attraverso il negativo e attraverso la morte. Così si comprende perché i Sonetti ad Orfeo furono concepiti come monumento funebre alla memoria di Wera Ouckama Knoop, una fanciulla prematuramente morta di cui Rilke canta la rinascita attraverso la sua poesia. L’esistenza umana nella poesia viene trasformata perché diventi simbolo di un’esistenza più alta. [...]
    E. Paci, Ancora sull’esistenzialismo, Edizioni Radio Italiana, Torino 1956, 104-106.
    (Da: http://rebstein.wordpress.com/2009/03/22/il-pezzullo-di-db-xii-la-fontana-di-rilke/)

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  14. aditus Dice:
    marzo 23, 2009 alle 6:58 pm | Replica
    [...] Così scrive Rilke in una lettera:
    «La natura, le cose del nostro ambiente e di nostro uso sono provvisorie, caduche. Ma esse esistono finché noi siamo qui, come nostro patrimonio e nostra amicizia, partecipi della nostra miseria e della nostra gioia, così come sono già state le confidenti di coloro che ci hanno preceduto… Non si deve soltanto calunniare ed avvilire tutto ciò che esiste… Deve essere anche afferrato da noi in intima comprensione e trasformato».
    Il concetto di trasformazione è il concetto della vita come metamorfosi, metamorfosi dell’esistenza negativa in una esistenza positiva, nella quale tutti gli esseri trovino un rapporto tra loro, un rapporto tra il mondo visibile e il mondo invisibile, tra l’esistenza ed il fine e lo scopo dell’esistenza. Ma per questo bisogna che l’uomo si abbandoni, che lasci maturare in sé il seme di una vita più alta e non pretenda di imporsi agli altri, di conquistare il mondo e di sottometterlo a sé. Sono, questi ultimi, temi fondamentali della filosofia di Heidegger. E’ proprio questa pretesa di afferrare il mondo con le nostre mani e con le nostre parole che del mondo ci fa conquistar ciò che è più vile e funesto e ci riporta, infine, alla nostra solitudine. Ecco l’inizio di uno dei Sonetti ad Orfeo:
    Tu mio amico sei solo, perché…
    Noi con gesti e con parole vogliamo
    Che il mondo troppo nostro diventi
    E forse quel che c’è di più vile e funesto.
    L’uomo che vuole impossessarsi del mondo è prigioniero di sé e rende prigionieri gli altri. Il suo elogio del mondo diventa angoscia e lamento perché, «sol con l’elogio il lamento si unisce».
    Questo lamento, che Rilke chiama Klage, è strettamente collegato con l’angoscia di Heidegger che è in vario modo espressa in tutti i Sonetti ad Orfeo. Nel sonetto tredicesimo della seconda parte l’uomo viene invitato ad accettare la morte e la propria situazione finita, a sentirsi sempre nella situazione di colui che dice addio:
    Previeni sempre l’addio, come se fosse ormai
    Dietro di te, come l’inverno che è trascorso…
    Sii sempre morto in Euridice.
    Sii, ma comprendi insieme i limiti del non essere…
    Rilke c’invita dunque a vivere riconoscendo i limiti della nostra esistenza. Questa esperienza negativa è però soltanto una condizione per una esperienza positiva più alta. L’uomo che accetta i propri limiti, che è sempre pronto a dire addio, che vive come se questo addio fosse già dietro di sé, è l’uomo che ha superato la propria chiusura e che, per dirla con Jaspers, si è aperto alla Trascendenza. La vita non è che una continua trasformazione di orizzonti, di esperienze, di figure. Non è chi si chiude in un orizzonte o in una esperienza che la vive davvero ma solo colui che sa accettare il significato di ogni esperienza per vedere il rapporto che tutte le esperienze hanno fra di loro, per scoprire la relazione che le costituisce, l’intimo nesso che le lega, così come unisce noi a tutti gli esseri e a tutte le cose del mondo. Quest’intimo collegamento è detto da Rilke lo spirito. Perciò egli può dire:
    Sia vita allo spirito che veramente ci unisce
    Perché noi possiamo veramente vivere nelle figure.
    E. Paci, Ancora sull’esistenzialismo, Edizioni Radio Italiana, Torino 1956, 106-110.
    (Da: http://rebstein.wordpress.com/2009/03/22/il-pezzullo-di-db-xii-la-fontana-di-rilke/)

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  15. aditus Dice:
    marzo 23, 2009 alle 6:58 pm | Replica
    Rilke
    (continuazione)
    Queste figure sono le varie forme dell’esistenza che sono veramente vissute quando noi non ci chiudiamo in nessuna di esse ma viviamo anche, pur sperimentandole nella loro limitatezza e nella loro negatività, nel rapporto che esse hanno tra di loro e col tutto. Qui l’uomo da un lato deve vivere la vita finita che gli è destinata, sperimentare la sua situazione esistenziale, ma dall’altro, proprio perché accetta se stesso, deve riconoscere il rapporto che ha con tutti gli altri, in una vita di relazione con gli altri nella quale si realizza la potenza collegante dell spirito. Certo Rilke pensa che nessun uomo può conoscere fino in fondo se stesso, può spiegarsi in modo preciso qual è la sua funzione nel mondo, qual è la sua ragione di esistere, l’essenza del suo esistere. Nessun uomo sa qual è la sua vera posizione, qual è la sua posizione della stanza che occupa, e quindi ignora tutti i rapporti che lo collegano agli altri. Tra uomo e uomo c’è il vuoto. Tuttavia questo vuoto è superato da misteriose antenne che fanno intuire a sentire ad ogni esistenza isolata, insieme alla vuota lontananza, anche un reale e giusto rapporto secondo il quale gli uomini possono vivere nel mondo. Ecco come si esprime Rilke:
    Senza conoscere la nostra vera posizione
    Possiam pure agire secondo un reale rapporto
    Le antenne sentono le antenne
    E attraversano la vuota lontananza.
    L’uomo può ignorare la propria precisa posizione ma l’amore può fargli sentire ciò che ignora, può farlo vivere in un piano di pura tensione e di musica delle forze. Ecco il verso di Rilke che segue:
    Pura tensione. O musica delle forze.
    Questa vita nella quale si esprime ad ogni istante l’armonia cosmica delle forze e la pura relazione del tutto con se stesso, non è concepita da Rilke come una fuga dal modesto lavoro dell’esistenza, dai doveri grandi ed umili di tutti i giorni. L’uomo non si deve perdere in una armonia astratta, ma questa armonia deve penetrare in ogni suo atto, anche nel più semplice, anche nell’atto del suo lavoro, anche nelle azioni «funzionali» della sua esistenza. Anzi le violente tempeste della vita si rivelano spesso false ed illusorie di fronte all’umile dovere da compiere, di fronte alla nostra decisione di abbandonarci anche agli atti che sembrano più futili e alle cose più insignificanti. Così continua Rilke:
    Forse che non ci abbandona ogni tempesta
    Di fronte ai più umili bisogni?
    L’armonia con il tutto è raggiunta, per esempio, dal contadino che con semplicità lavora la sua terra. Egli ignora molte cose, egli ignora le infinite relazioni che congiungono la terra che lavora con le stagioni, con il lavorio degli elementi chimici, con il travaglio universale. Eppure egli sente che questa relazione esiste, sente che anche il suo atto si inserisce in un coro di forze e in esse acquista la sua funzione ed il suo significato. Certamente non potrà mai raggiungere il mistero della trasformazione del seme in messe, il mistero del seme che muore per dare nuova vita, dell’esistenza che si nega per rendere possibile una nuova esistenza. Ma il contadino sente questo mistero anche se non lo spiega e questo sentimento diventa il suo lavoro, la sua funzione nell’armonia del tutto e nei suoi rapporti con gli uomini. Marcel ha visto molto giustamente in Rilke il poeta della comunione umana e divina ed Heidegger ha compreso il senso rilkiano della metamorfosi. Tuttavia in Heidegger e Marcel c’è troppa diffidenza per tutto ciò che è funzionale, funzionalità che viene degradata al piano di esteriorità tecnica. (…) E leggiamo, per concludere, i versi nei quali Rilke esprime ciò che finora si è detto:
    Anche il contadino, quando fa e lavora,
    Mai là non giunge dove la semenza
    Si muta in messe. E’ la terra che dona.
    E. Paci, Ancora sull’esistenzialismo, Edizioni Radio Italiana, Torino 1956, 106-110.
    (Da: http://rebstein.wordpress.com/2009/03/22/il-pezzullo-di-db-xii-la-fontana-di-rilke/)

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  16. L'Orfeo (1) - Introduzione Scritto da Christian | Etichette:L'Orfeo,Monteverdi
    L'Orfeo, favola in musica - Opera in cinque atti - Libretto di Alessandro Striggio - Musica di Claudio Monteverdi - Prima rappresentazione: - Mantova (Palazzo Ducale), 24 febbraio 1607 - Personaggi e voci:
    La musica (soprano)/Orfeo (tenore)/Euridice (soprano)/Messaggera (soprano)/Speranza (soprano)/Caronte (basso)/Proserpina (soprano)/Plutone (basso)/Apollo (tenore)/Eco (tenore)/Pastori/Ninfe/Spiriti infernali
    Pur non trattandosi – strettamente parlando – della prima opera lirica della storia (molti studiosi attribuiscono questo primato alla "Dafne" di Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598), "L'Orfeo" di Monteverdi è sicuramente però il primo capolavoro del genere, nonché il più antico melodramma a essere tuttora regolarmente rappresentato nei teatri di tutto il mondo. Il soggetto, ovviamente, è quello del mito (o "favola", com'era definita allora) di Orfeo ed Euridice, di cui parleremo più in dettaglio nei prossimi post: da notare che i temi pastorali e quelli mitologici legati alla Grecia antica erano particolarmente frequentati nell'arte e negli spettacoli – musicali e non – presso le corti dell'epoca, una tendenza che può essere fatta risalire all'Arcadia di Jacopo Sannazaro (1480); ma la storia di Orfeo aveva anche un significato ulteriore e programmatico, trattandosi al contempo di un'elogio del potere della musica, e come tale era il soggetto preferito da poeti e musicisti.
    Ai tempi in cui Monteverdi compose "L'Orfeo", l'arte di mescolare insieme musica e teatro, ossia canto e recitazione, era ancora agli albori. Nei cosiddetti drammi lirici, la musica compariva solo in parte, e in ogni caso si limitava ad accompagnare le parole rimanendo sullo sfondo e fornendo semplicemente una "base armonica". Durante il Rinascimento, specialmente a Firenze, si era però gradualmente sviluppata l'arte dell'intermezzo (o intermedio): una performance completamente musicale, collocata fra un atto e l'altro di una normale rappresentazione teatrale di cui non faceva necessariamente parte. Queste "proto-opere", che combinavano danza e madrigali, divennero sempre più elaborate e complesse, fino a trasformarsi in drammi musicali autonomi e completi che venivano eseguiti in occasione di eventi particolari, come matrimoni o feste di corte.
    (Da: Christian - Milano, in Opera Omnia, 15.02.12; cfr: http://www.blogger.com/profile/08398471982127849312)

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  17. L'Orfeo (2) - Introduzione Scritto da Christian | Etichette:L'Orfeo,Monteverdi
    L'Orfeo, favola in musica - Opera in cinque atti - Libretto di Alessandro Striggio - Musica di Claudio Monteverdi - Prima rappresentazione: - Mantova (Palazzo Ducale), 24 febbraio 1607 - Personaggi e voci:
    La musica (soprano)/Orfeo (tenore)/Euridice (soprano)/Messaggera (soprano)/Speranza (soprano)/Caronte (basso)/Proserpina (soprano)/Plutone (basso)/Apollo (tenore)/Eco (tenore)/Pastori/Ninfe/Spiriti infernali
    Nato a Cremona nel 1567, Claudio Monteverdi aveva studiato canto, musica e composizione nella sua città natale, per poi trasferirsi a Mantova come suonatore di viola alla corte del duca Vincenzo Gonzaga. Questi aveva una vera e propria passione per l'arte e per la musica (una tradizione di famiglia), e volle portare anche nella propria città quel nuovo tipo di spettacolo che gli artisti fiorentini stavano sviluppando. Dopo che il duca assistette a Firenze, in occasione del matrimonio di Maria de' Medici e del re Enrico IV di Francia (6 ottobre 1600), a una rappresentazione della "Euridice" di Peri, il principe ereditario Francesco Gonzaga chiese ai suoi musicisti di realizzare un'opera su temi simili. Monteverdi, che nel frattempo era diventato il mastro della musica di corte, ebbe il compito di comporre la partitura, mentre il libretto venne commissionato ad Alessandro Striggio.
    Diplomatico presso la corte dei Gonzaga e figlio a sua volta di un noto compositore, Striggio si ispirò per il suo testo a diverse fonti: innanzitutto a quelle dell'antichità, in particolare le "Metamorfosi" di Ovidio e le "Georgiche" di Virgilio; poi al dramma lirico "La fabula di Orfeo" del 1480 di Angelo Poliziano; al dramma pastorale "Il pastor fido" di Giovan Battista Guerini (di cui proprio Monteverdi aveva curato un allestimento a Mantova nel 1598); e infine alla già citata opera "Euridice" di Jacopo Peri, al cui libretto – di Ottavio Rinuccini – è in parte debitore. Il testo di Rinuccini, essendo stato scritto in occasione dei festeggiamenti di un matrimonio, terminava però con un lieto fine (Orfeo riusciva a ricondurre con sé Euridice dal regno dei morti!), mentre Striggio potè permettersi una maggiore fedeltà al mito originale.
    (Da: Christian - Milano, in Opera Omnia, 15.02.12; cfr: http://www.blogger.com/profile/08398471982127849312)

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  18. L'Orfeo (3) - Introduzione Scritto da Christian | Etichette:L'Orfeo,Monteverdi
    L'Orfeo, favola in musica - Opera in cinque atti - Libretto di Alessandro Striggio - Musica di Claudio Monteverdi - Prima rappresentazione: - Mantova (Palazzo Ducale), 24 febbraio 1607 - Personaggi e voci:
    La musica (soprano)/Orfeo (tenore)/Euridice (soprano)/Messaggera (soprano)/Speranza (soprano)/Caronte (basso)/Proserpina (soprano)/Plutone (basso)/Apollo (tenore)/Eco (tenore)/Pastori/Ninfe/Spiriti infernali
    Dopo la prima rappresentazione in occasione del Carnevale del 1607 di fronte a un pubblico ristretto (composto da nobili e dai membri dell'Accademia degli Invaghiti, la società musicale fondata a Mantova sotto il patrocinio dei Gonzaga), rappresentazione che suscitò un entusiasmo tale da spingere il duca a chiederne quasi immediatamente una replica nei giorni successivi, l'opera venne allestita negli anni seguenti anche in altre città italiane. Monteverdi ne pubblicò lo spartito a Venezia nel 1609, con il finale modificato, cui seguì una ristampa nel 1615. Dopo la morte del compositore nel 1643, però, l'opera venne presto dimenticata. Fu riscoperta alla fine del diciannovesimo secolo, in pieno revival del barocco, e da allora è rientrata stabilmente nel repertorio dei grandi teatri lirici (anche se solo nel tardo ventesimo secolo si è cominciato a prestare la necessaria attenzione filologica al testo e all'uso di strumenti d'epoca, molti dei quali sono naturalmente diversi da quelli che fanno parte della tradizionale orchestra classica).Proprio l'orchestrazione è assai particolare, visto che a una meticolosa lista degli strumenti necessari (all'inizio dello spartito Monteverdi ne elenca ben 33, ai quali ne vanno aggiunti altri 8 – come le trombe della toccata – il cui utilizzo è occasionale: un numero non proprio indifferente per l'epoca!) non corrisponde poi una specifica indicazione di come e quali adoperare in ciascuna scena: i vari gruppi di strumenti sono semplicemente citati in base alla loro "funzione drammatica" e associati alle diverse sequenze a seconda dei personaggi sul palco (gli archi e i flauti per accompagnare i pastori, gli ottoni e le trombe di legno per gli spiriti degli inferi, ecc.), anche per permettere alle orchestre delle varie corti di "adattare" senza fatica la partitura agli strumenti a propria disposizione (di fatto l'opera si può allestire senza problemi anche con un organico assai più ristretto di quello indicato dall'autore). Molto spazio viene inoltre lasciato – com'era consuetudine allora – ad "abbellimenti" e aggiunte secondo l'improvvisazione dei musicisti (che spesso erano a loro volta compositori) e l'estro degli stessi cantanti.
    (Da: Christian - Milano, in Opera Omnia, 15.02.12; cfr: http://www.blogger.com/profile/08398471982127849312)

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  19. L'Orfeo (4) - Introduzione Scritto da Christian | Etichette:L'Orfeo,Monteverdi
    L'Orfeo, favola in musica - Opera in cinque atti - Libretto di Alessandro Striggio - Musica di Claudio Monteverdi - Prima rappresentazione: - Mantova (Palazzo Ducale), 24 febbraio 1607 - Personaggi e voci:
    La musica (soprano)/Orfeo (tenore)/Euridice (soprano)/Messaggera (soprano)/Speranza (soprano)/Caronte (basso)/Proserpina (soprano)/Plutone (basso)/Apollo (tenore)/Eco (tenore)/Pastori/Ninfe/Spiriti infernali
    Dal punto di vista musicale, voci e strumenti si intrecciano fra loro in maniera armonica e "concertante", creando un equilibrio perfetto che non aveva assolutamente precedenti. Monteverdi fonde insieme vecchie e nuove "forme" (arie, recitativi e canzoni a strofe si alternano a ritornelli strumentali, cori e danze) e le utilizza in funzione dell'azione teatrale con una ricchezza di stili che si rispecchia nei continui cambi di tono da un atto all'altro. Senza limitarsi ad "accompagnare" semplicemente il testo con la musica, ne sfrutta l'effetto drammatico per trasmettere emozioni e passioni. Ricorre ampiamente anche alla polifonia (l'intersezione di più voci melodiche): pur rifacendosi allo stile dei madrigali fiorentini, di fatto la sua opera segna il passaggio decisivo dal Rinascimento al Barocco. Le parti vocali da solista sono numerose, ma con l'eccezione del cantante che veste i panni di Orfeo – l'unico sempre presente in ogni atto – gli altri interpreti di solito si alternano in più ruoli (per esempio, la Musica del prologo può essere anche Euridice nel resto dell'opera, la Messaggera è la Speranza, la Ninfa è anche Proserpina, i pastori sono anche gli spiriti). I principali ruoli femminili erano originariamente interpretati da castrati (la parte di Euridice, nella prima rappresentazione, sarebbe stata eseguita addirittura da un prete, padre Girolamo Bacchini): oggi naturalmente le parti sono interpretate da donne, anche se talvolta si ricorre a controtenori. Notevole lo spazio dedicato ai cori, numerosissimi nel corso dell'opera e spesso caratterizzati da una funzione drammaturgica che va oltre il semplice commento (si pensi agli inni festosi delle ninfe e dei pastori nei primi due atti).
    (Da: Christian - Milano, in Opera Omnia, 15.02.12; cfr: http://www.blogger.com/profile/08398471982127849312)

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  20. Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck (1):
    È l’argomento antico di Orfeo ed Euridice, intorno al quale Poliziano scrisse, in pochi giorni, una specie di profana rappresentazione che ha più l’aspetto reale di un poema lirico che non teatrale. La favola o dramma si rifà a quanto descritto nel VI libro delle Georgiche di Virgilio e ai libri X – XI delle Metamorfosi di Ovidio. Euridice moglie di Orfeo muore punta da un serpe, mentre fugge dinnanzi all’amante Aristeo; allora Orfeo scende all’Averno per liberarla e con il suo canto riesce a impietosire la terribile forza degli inferi e il re Plutone. Infatti egli riavrà la consorte a patto che non si volga mai indietro a guardarla se prima non arrivi alla superficie terrestre. Inizia così il viaggio di ritorno di Orfeo ed Euridice, ma il patto non viene osservato, e Orfeo perde definitivamente la consorte, anzi quando giunge sulla terra, le Baccanti fanno strazio di lui, come spregiatore delle donne. Questo mito di Orfeo, caro a Poliziano, è il mito della poesia, che trasforma la natura e vince la morte. La fabula di Orfeo fu composta a requisizione del cardinale Francesco Gonzaga, fu scritta in volgare – pare attorno al 1480 – perché dagli spectatori fosse meglio intesa. Il breve componimento determina una svolta nella storia del teatro in volgare. Il testo rinuncia ai moduli della recitazione cantata sostituendoli con dialoghi a recitazione parlata. La struttura scenica si articola in tre episodi: bucolico il primo, eroico il secondo, bacchico il terzo. La sequenza bucolica si avvia a dialogo tra il vecchio pastore Mopso e il giovane Aristeo, ormai perdutamente invaghito della ninfa Euridice; alla sua canzone Udite selve, che è una vera ballata, replica lo stupore di Tirsi per aver intravisto dietro il monte la gentil donzella cui invano si rivolge la supplica di Aristeo nei versi brevi della frottola: Ascolta o ninfa bella, ascolta quel che io dico; mentre Euridice fugge, Orfeo appare sopra il monte e celebra in latino il mecenatismo dei Gonzaga, cantando l’ode saffica in onore del cardinal Francesco, ma intanto una velenosa serpe uccide la ninfa inseguita da Aristeo. La sequenza eroica inscena la discesa agli inferi alternando le ottave liriche del cantore che lamenta la morte dell’amata alle ottave dialogiche che danno voce allo stupore di Plutone e di Minosse, assimilabili alle stanze di una canzone o ballata, simili a canti sono invece le cinque ottave della preghiera con cui Orfeo ottiene di ricondurre tra i viventi la ninfa. Il ritorno, fatalmente interrotto dal volgersi indietro dell’eroe, contrappone i trionfali distici latini di Orfeo alle strofette concitate della furia dell’eroe e a quelle del dolore degli amanti disperati. Una rapida sequenza bacchica si scatena a chiusura della favola sul proposito di Orfeo di ripudiare il femminil consorzio per la primavera del sesso migliore; straziando l’orfico banditore dell’omofilia, le baccanti ripetono i primi due versi intonati dal coro: Ognuna segua, Bacco, te! Bacco, Bacco euoè! sulla musica del canto carnascialesco accompagnato da cimbali e tamburelli.
    (Da: www_arthenaweb_org / Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck)

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  21. Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck (2):
    Poeticamente il dramma si riporta, nelle parti migliori, all’ispirazione delle Stanze, altra opera di Poliziano, assunzione e trasfigurazione degli affetti e delle passioni umane in un mondo ideale e mitico, dove il dramma si risolve in musica elegiaca e dove ogni tormento si placa nella purezza della contemplazione; bastano come esempio le parole di Plutone in risposta a quelle di Orfeo orante: I’ son contento che si ci dolce plettro/ si inchina la potenza del mio scettro; o quelle di Euridice, che si lamenta con Orfeo per essergli stata tolta forzatamente: Oimè, che ‘ l troppo amore/ n’ha disfatti ambedue/ Ecco che ti son tolta a gran furore/ né sono ormai più tua/ ben tendo a te le braccia ma non vale/ che indietro son tirata. Orfeo mio vale; o quelle tremende della baccante che torna con la testa di Orfeo: Oo!Oo! morto è lo scellerato/ Evoe/ Bacco Bacco! Io ti ringrazio. Per tutto il bosco l’abbiamo stracciato/ tal che ogni sterpio è del suo sangue sazio/ l’abbiamo a membro a membro lacerato/ in molti pezzi con crudele strazio: or vada e biasimi la teda legittima/ Evoè Bacco/ accetta questa vittima.
    E alla favola di Poliziano si ispirano anche il poeta Ottavio Rinuccini (1562 -1621) e il musicista Iacopo Peri (1561 – 1633) con la loro Euridice. In loro l’idea di unire la musica e il dramma, secondo quanto si presumeva accadesse nella tragedia greca. L’opera di Rinuccini, pur riprendendo Poliziano, si conclude in un finale totalmente diverso, dove si ha il riscatto dall’inferno di Euridice, che vivrà poi felice con il suo Orfeo. In realtà, Rinuccini, più che rendere drammatica la favola, sembra semplicemente raccontarla. Il linguaggio poetico preannuncia quello che sarà proprio dell’Arcadia, colorito e vezzoso. Il dramma inizia con la celebrazione delle nozze di Orfeo ed Euridice, e la presenza di altri personaggi tra cui Dafne, che racconta la morte di Euridice avvenuta per il morso di un serpente, Arcetro, che narra della terribile angoscia di Orfeo, Aminta, che annuncia al popolo il prodigio avvenuto e la riconquistata felicità dei due sposi. Non pare però che le sostituzioni operate da Rinuccini abbiano portato un contributo originale all’antico testo. L’Euridice viene eseguita a Palazzo Pitti il 6 ottobre del 1600 per le celebrazioni di Maria De’ Medici e di Enrico VI di Francia. Nella prefazione a Le musiche sopra a Euridice, Jacopo Peri mette a fuoco alcuni punti già trattati nel musicare la sua Dafne: l’aspirazione ad un canto parlante, che si collocasse a metà strada tra voce cantata e voce parlata, sia per aspetto ritmico che per intervalli, dato dalla registrazione amplificata dai vari profili sonori di un individuo, via via assunti dalla voce in preda a questa o quella emozione. Per il compositore che intonava versi, risultava indispensabile una preventiva valutazione metrica del testo poetico, in modo da attribuire valore appropriato alle sillabe: quelle accentate erano considerate lunghe, e brevi quelle atone. Particolare attenzione doveva essere posta anche nell’evitare la dilatazione di queste ultime, con inopportuni vocalizzi (passaggi), cercando di sottolineare la preminenza strutturale delle altre, magari abbinandole a consonanze con il basso continuo, come si poteva leggere anche nelle riflessioni teoriche del Peri. Una monodia recitativa originata da un’intenzione di massima aderenza al profilo metrico e appoggiata alla non periodicità dei versi sciolti, nel tentativo di proporsi come una amplificazione del parlato. La sua declamazione rallentata nel canto gli conferiva una pompa e un’enfasi che dilatavano il tempo reale necessario al disbrigo della componente verbale.
    (Da: www_arthenaweb_org / Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck)

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  22. Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck (3):
    Dal punto di vista musicale, un effetto analogo lo sortiva ogni momentaneo abbandono del canto a voce sola in favore di episodi a più voci. Al matrimonio di Maria De’ Medici e di Enrico VI era presente Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, tra il suo seguito il segretario di corte e poeta Alessandro Striggio (1573 – 1630). Sette anni più tardi, proprio quest’ultimo collaborò con il maestro di cappella del duca, Claudio Monteverdi, (1567 – 1643) a un nuovo progetto operistico: Orfeo. Fu questo un tentativo di competere in ambito teatrale con Firenze: Orfeo – definito favola in musica – fu uno spettacolo di corte, sostenuto dal principe Francesco Gonzaga, erede al trono. Striggio e Monteverdi avevano senza dubbio consultato le stampe del libretto e della partitura di Euridice, mettendo di conseguenza Orfeo in condizione di far tesoro della lezione di Rinuccini e di Peri. Striglio impresse al mito di Orfeo e di Euridice una più spiccata e intensa teatralità. In Rinuccini era Dafne che raccontava come Euridice morì, Striggio fa invece irrompere Silvia, che sopraggiunge a turbare i divertimenti canori di Orfeo e dei pastori, e prima di iniziare la propria narrazione comunica la terribile notizia, lasciando tutti sgomenti. Muto per tutta la durata del racconto, Orfeo, al termine, erompe in una patetica allocuzione all’amata, maturando la decisione di scendere agli inferi per riprenderla. Nell’atto I i canti e le danze di Orfeo, dei pastori e delle ninfe si allineano secondo uno schema a specchio che restituisce l’idea di un brillante quadro vivente, festivo, alla maniera degli intermezzi. Ne è fuoco centrale la frase di Orfeo Rosa del ciel, vita del mondo e degna, gli fanno, prima e dopo, corona sia il coro danzato Lasciate i monti sia l’invocazione nuziale Vieni, Imeneo, deh vieni. Con efficace contrasto, nell’atto II alle melodiose strofe e ai canti degli ignari pastori e di Orfeo si oppongono di lì a poco funebri versi sciolti e gli accenti recitativi del racconto di Silvia. Questo atto presenta una successione di arie per Orfeo, duetti e cori che hanno il compito di dare risalto al capovolgimento drammatico, determinatosi con il sopraggiungere della messaggera. Nell’atto III il brano del lamento di Orfeo dinanzi alle porte degli inferi è un’elaborata serie di variazioni strofiche con accompagnamento strumentale che sfrutta il virtuosismo vocale per evocare i poteri magici di Orfeo. Sempre nell’atto III, Caronte si oppone al passaggio del cantore : al di lui organo di legno, controbatte al suono di regale. Nell’atto IV Orfeo ha un’aria di celebrazione: Quale onor di te fia degno, con parti obbligate per due violini sopra un basso dall’andamento ritmico, con salti musicali. La scena di Orfeo con Eco, nell’atto V, implica una distribuzione, anche spaziale, dei gruppi di basso continuo. Monteverdi preferisce reinterpretare il vecchio alla luce del nuovo, e viceversa, per raggiungere una sintesi di innegabile forza drammatica.
    (Da: www_arthenaweb_org / Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck)

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  23. Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck (4):
    Nel 1761 il poeta melodrammatico Ranieri Calzabigi (1714 – 1795) a Vienna incontrò il musicista C. W. Gluck (1714 – 1787), incontro che conduce alla riforma del melodramma, dove poesia e musica mirano ad una espressione più vera e più sensibile, ad un canto semplice e naturale. Dall’impegno di Calzabigi e Gluck nasce, nel 1762, Orfeo ed Euridice, che nel corso del tempo è diventata il simbolo di Gluck e della sua epoca. L’opera rappresenta l’esordio della decisiva collaborazione con Calzabigi e quindi della conclamata riforma, ma l’assolutezza della vicenda mitologica, la stesura letteraria e l’accessibilità della veste musicale non tardano a disporla oltre i confini del tempo. Senza dubbio alla condizione simbolica di Orfeo ed Euridice giova la specificità del mito, che si incentra sul fenomeno della musica e dalla musica stessa è sempre stato tra i prediletti. Cantore e strumentista, Orfeo con la sua arte vince la potenza della natura: quale mito più musicabile? L’opera viene rappresentata al Burtheater di Vienna il 5 ottobre del 1762, edita a Parigi nel 1764. Eccone i personaggi: Orfeo, Euridice, Amore, pastori, ninfe, furie, spettri dell’inferno, eroi ed eroine degli Elisi, seguaci di Orfeo. La storia si apre, nel primo atto, con i pastori, le ninfe e i seguaci di Orfeo che recano corone di fiori alla tomba di Euridice, esortando la defunta ad ascoltare i lamenti del marito disperato, che decide di scendere all’Averno per recuperare la consorte. In quel momento compare Amore che lo incoraggia e gli comunica il patto imposto da Giove, secondo il quale Orfeo non dovrà guardare la sposa fino al rientro sulla terra dei vivi. Orfeo accetta. II atto: Orfeo arriva all’inferno suonando la lira, le potenze infernali, prima feroci, si arrendono a questo canto e alle proteste amorose di Orfeo; egli chiede della sposa, che il coro cantando e ballando gli rende in nome di Amore. III atto: Orfeo guida Euridice senza voltarsi a guardarla, ma non resistendo più, quando ormai manca poco all’uscita, si volta e la vede morire una seconda volta; per cui piange sconsolato e si accinge a morire di propria mano, Amore però lo ferma e convinto della sua buona fede resuscita Euridice. In un magnifico tempio dedicato ad Amore, Orfeo, Euridice, eroi ed eroine, ballando e cantando, festeggiano il ritorno alla vita della fanciulla e inneggiano all’amore, mentre cala rapidamente il sipario. Per adattare la favola alle nostre scene ho dovuto cambiare la catastrofe scrisse Calzabigi nell’Argomento del libretto per la prima viennese, ma non per questo cade nella contraddizione e nella disuguaglianza. Amore è qui il deus ex machina, che non soltanto risolve il dramma, ma anche lo provoca all’inizio imprimendogli così una logica circolarità.
    (Da: www_arthenaweb_org / Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck)

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  24. Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck (5):
    Nella versificazione l’opera ripete la semplice classicità di Pietro Metastasio (1698 – 1782), abbondando di ottonari e di quinari, ma senza tralasciare settenari e senari nei pezzi destinati alle arie, naturalmente di endecasillabi e settenari per i recitativi; non manca il, severo decasillabo nel coro dell’esordio. Nella veste musicale, l’opera conserva numerosi elementi tipici del melodramma italiano, primo fra tutti la scelta del contralto maschile per il protagonista. Regno dell’informale resta l’arioso, dilatabile a piacere. Quanta poesia nella musica di Gluck, quanta atmosfera. Non imitazione della natura, nel senso settecentesco, cioè rappresentazione obiettiva delle cose espresse dall’arte e dalla tecnica, più che dalla vita e nella contemplazione della natura è influenzato da essa. La somma degli elementi è una fusione nella quale i particolari sono assorbiti. Il moto costante delle sestine degli archi e la ripetizione del tono danno l’immagine del tempo che fluisce eterno, il timbro degli elementi che fanno melodia: il flauto, il fagotto, l’oboe, i secondi violini, i violoncelli evocano la natura, i zefiri, gli uccelli, i ruscelli. È lo stupore di Orfeo, la sua soave sensazione di poeta e musico, alla nuova vista del sovraumano. Al fine egli parla ammirato della purezza celeste, della chiarità solare, dell’armonia delle sfere. Parla intonando e non si sa dire se il suono della sua voce derivi dall’armonia o se crei l’armonia. Le sestine fluiscono percepibili e impercepibili, come accade nel nostro udito per un ritmico continuo moto sonoro. E su quell’infinito andare emergono sempre più agili e frequenti, con arpeggi infranti, biscrome e semibiscrome, pigolii, fruscii di venticelli, mormorio di limpide acque. La voce umana non sovrasta, è al centro della naturale sinfonia. Poi gli strumenti tacciono; si direbbero solo affievoliti da un alito di vento che ne smorza il suono; sembra suonino ancora, come accade nel nostro orecchio assuefatto se un continuo moto sonoro cessa un istante e ne resta l’eco illusoria. Nella breve pausa la voce recita, senza alcun accompagnamento e l’attimo è bellissimo. È un recitativo misurato che vuol essere scandito nello stesso movimento, in modo da non interrompere la soave immagine del tempo fluente. Giunge Euridice… Questo è Gluck! Il mito assicura la sua frequenza in musica, dopo il grande caso gluckiano annovera nel ‘700 Ferdinando Bertone (1770), Antonio Tozzi (1775), Franz Joseph Haydin (1791). Nell’800 l’operetta parodistica Orfeo all’inferno (1858) di Jaques Offenbach; nel ‘900 le opere di E. Krenek e di D. Milhoud (1926); Orfeo ed Euridice, Il male di Orfeo, La Favola di Orfeo (1931) di Alfredo Casella; Orfeo (1976) di Francesco Carluccio, La Maschera di Orfeo (1986) di Harrison Birtwistle; per non parlare del poema sinfonico di Liszt (1953) e del balletto di Stravinskij (1948).
    (Da: www_arthenaweb_org / Fabiana Del Bianco, Il mito di Orfeo nel melodramma da Poliziano a Gluck)

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