venerdì 21 giugno 2013

Del Vedere. E del Vedere Oltre.





Ho visto.






Paolo Conte - Live Arena Di Verona 2005 
(https://www.youtube.com/watch?v=W0zSyrObgG0&list=PL67557219594CABF6) 
(Condivisione: https://youtu.be/W0zSyrObgG0?list=PL67557219594CABF6 )
(Immesso su Youtube da: magnificol  - si ringrazia) 
Categoria: Musica Licenza: 
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"Avevo una passione per la musica 
di ruggine 
nerastra tinta a caldo di caligine 
metropoli 
le tentazioni andavano e venivano 
cosa farò di me? 

guidavo nella notte ferma immobile 
friabile 
venivo da una valle dove annuvola 
nell'umido 
sentivo sulle spalle un bel solletico 
tu cosa vuoi da me? 

lasciando alla mia infanzia 
ogni ingenuità sensibile 
l'amore è uno stregone un fuoco 
isterico magnifico 
carezza di una mano che semplifica 
cosa sarà di me? 

l'abbraccio adulto in un silenzio 
scenico visibile 
l'incendio è la stagione 
delle tenebre bellissime 
avevi fatto in aria un incantesimo 
tu cosa sei per me..."
(Paolo Conte)



***


Su

DEL VEDERE

E

DEL VEDERE OLTRE


Studi di Iconologia



Renato Tomasino, Live. Iconologia

Mitologie

1. Il sesso di Dio: Zeus-Artemide insidia Callisto 
( Jacopo Amigoni)

2. Artemide/Luna/Cane 
(Cavalier d’Arpino)

3. Leda con Zeus teriomorfico 
(Leonardo)

4. Diana-Mandorla lunare ama il sonno eterno di Endimione (Pier Francesco Mola)

5. Nettuno e Anfitride con nimbo aureo

6. Pistrice- Nereide chimera

7. Lo sguardo della Venere pandemia 
(Boucher)


"(...) Starobinski  descrive:  “Il  tempo dell’infelicità  conosce  una breve sosta, e questa sosta, ottenuta attraverso la magia di una maschera, vogliono farcela sentire come l’eco di una felicità perduta; vorranno farci ascoltare la musica,  con l’intatta durata da essa posta  in atto, come un richiamo delle favolose origini” (pag. XIII).

Gli apparati tutti che predispongono  ed elaborano la “festa” servono congiuntamente ad immergerci in quella “aura” che è il non-tempo della grande “vacanza” originaria, lo spazio dell’infinito piacere dei nostri sensi e dunque della nostra immaginazione, là dove sarà possibile all’oro delle origini abbagliare la nostra vista e renderla traslucida alla visione della silhouette epifanica. E alla musica  si  affida il compito di trascinarci fuori dal tempo della colpa e della sofferenza, della corruzione e della morte, di accostarci  alla comunione con la star che, per amore, si  degna di apparirci, e perfino di assumere  tragicamente i  tratti della nostra  stessa corruttibilità. Ma il  suo canto, come quello delle sirene, si eleva sulle soglie della morte in un rischio calcolato, un rischio che tanto più la assolve quanto più quella ci seduce, alla lettera ci porta fuori dalla nostra vita, in una ex-sistenza nella quale non possiamo a lungo resistere. Così, di necessità, quel piacere è per noi effimero. Tuttavia, per il tempo che vale, seguire quel canto di sirena, cantare anche noi quel canto, ci trascina nell’esperienza di un oltre dal tempo mortale, di un oltre dall’universo  della corruttibilità; all’esperienza, dunque, di un’altra dimensione. Ciò non toglie che tale percorso sia per noi ambivalente e quanto mai rischioso, come, del resto, lo è per la star la cui tragedia non può essere simulata, ma reale!...Se no che valore avrebbe?...Solo che il glorioso destino della star è segnato fin dall’inizio e per sempre nella sua stessa aura luminosa, e il nostro?...Del canto delle Sirene a volte si muore, se non si possiede l’accortezza dolente e cinica di Ulisse, ed è questo che inebria  nell’avventura  dello show.


Il più gran poeta del femminile seduttivo ed inattingibile,  del femminile proprio come epifania iconica, ha descritto un live musicale – del resto è l’epoca della Camerata De Bardi  e dell’opera musicale nascente – ed è  il live della grande ingannatrice, la seduttrice per antonomasia, ma non sposterebbe nulla  se la sua maga Armida si chiamasse invece Beyoncé o Mariah Carey emergente alla luce ed al canto: 
“Così dal palco di notturna scena/o ninfa o dea, tarda sorgendo, appare./  
Questa,   benché non sia  vera Sirena/ma  sia magica larva, una ben pare/di quelle che già presso a la tirrena/
piaggia abitàr l’insidioso mare;/
né men ch’in viso bella, in suono è dolce/
e così canta, è l cielo e l’aura molce” 
(Gerusalemme liberata, XIV, 61). 

Il momento dell’ispirazione  è senza alcun dubbio fornito al poeta dalla diretta esperienza della performance scenica  delle prime divine del teatro lirico nascente in forma di Pastorale. Ma è del pari evidente che il richiamo al mito aureo si fa nel passo da intratestuale – relativo alla tematica stessa dei drammi pastorali – extratestuale, ovvero relativo alla epifania della diva nella rappresentazione.


Ora, poiché il credere agli incantesimi manifesta una  regressione al pensiero primitivo e, insieme, ai primi sviluppi della vita psichica individuale, queste grandi seduttrici sono la realizzazione del nostro stesso desiderio e, se per qualche verso appaiono pericolose o addirittura mortali, ciò corrisponde al timore della punizione che sempre accompagna il desiderio.

Ma è un timore che vale la pena di soffrire, se questo  è il prezzo per entrare nel giardino incantato della seduttrice: così come nel melodramma alle sue origini – quando era popolato da eroi e semidei, ninfe e maghe – anche adesso l’apparato dell’opera pop predispone quel giardino incantato, là dove saremo felici, per un tempo che s’invola, con la grande seduttrice che vi abita e che nella sua icona per intero l’incarna...

L’esperienza  sublime  non ha nulla a che fare con quelle che è possibile intrattenere d’ordinario,   nella nostra  vita reale. Solo  colpevolmente una donna del nostro quotidiano può conformarsi all’icona della beltà scenica. Certo, ciò avviene nella nostra società affluente, almeno da quando sono esistite le Marilyn, le B.B., le Gilda imitate dalle moltitudini femminili; ma ciò avviene per l’appunto sotto il segno della colpa  che instaura dal modello lo spazio dell’inadeguatezza e, alla lunga, dell’insostenibilità.  Infatti, come ha scritto ancora il poeta nell’invettiva contro quel valore dell’onore, controriformato, che è poi il sociale, che è il moderno, che è la frustrazione: 

“Tu a begli occhi insegnasti/di starne in sé ristretti/ 
e tener loro bellezze altrui secrete;/
tu raccogliesti in rete/
le chiome e l’aura sparte;/
tu i dolci atti lascivi/festi ritrosi e schivi;/
ai detti il fren ponesti, ai passi l’arte” 
(Aminta, vv. 698-705). 

E sognava il poeta, dunque, il contrario inattingibile: lo sguardo licenzioso, le parole e i gesti invitanti nella ostentata separazione feticista dal corpo, i capelli sparsi nel caos che paventa la pura perdita, il passo languoroso ed allusivo mosso dal baricentro rovente del plesso solare. Tutto quel che è negato è qui desiderato, nella disperazione d’un desiderio che s’è deviato per il poeta, un giorno, scontrandosi con le perdite d’amore, sicchè  ha immaginato, infine, proprio la sua inattingibile e assoluta Shakira. La ninfa Shakira d’ogni tempo che l’ha reso folle.

Tornando nel solco di Starobinski, sono dunque tre le tipologie dell’iconismo femminile con attributi di mana  sacrale,  quali sono  state formulate dallo spettacolo a partire dal melodramma e dalla Commedia dell’Arte fino al pop-live dei nostri giorni. Tre tipologie talmente codificate da decidere, nel bene e nel male, attraverso la loro solo epifania, delle sorti della rappresentazione: successo, fascinazione, mitologie del backstage e del post-stage, interdetto morale e/o culturale, censura e persecuzione, ripulse atterrite dal femminile di autocrati della scena (come Craig) o del set (come Cukor nei confronti di Marilyn). E queste  tre tipologie sono: la “Armida seduttrice” che instaura il regno delle false apparenze e delle illusioni, e fa del proprio potere del seducere lo strumento per smarrire la vista e la mente di chi la rimira nel labirinto di un desiderio inappagabile; la “Poppea incoronata” che rifulge nella gloria della sua beltà trionfante e incorruttibile, ma che tale appare per- ché così  piena di amore sensuoso – in tutti i sensi dell’aggettivo – da farsene provvida dispensatrice, per l’appunto la grande consolatrice d’amore; c’è infine la “Manon suppliziata”, fanciulla portata dal suo stato sociale elevato e dalla sua stessa beltà straordinaria alla frivolezza incosciente, indotta dal libidinoso  moralismo  borghese  alla   prostituzione,  tradotta in  catene senza riguardo per quella sua beltà che non sia lo spettacolo sadico dello sciupío, infine sfinita e languorosa in quel deserto americano che è il deserto dell’anima ed il venir meno del corpo.

Ma le tre tipologie  – la tassiana,  la monteverdiana e quella di  Prévost- Massenet-Puccini  – di sovente  si  sono tra loro intrecciate in vario modo, determinando drammaturgie, attese spettatoriali, icone viventi e leggendarie; ed in generale si sono manifestate talmente potenti da sostenere nell’immaginario di ogni spettatore una sorta di inconscia equivalenza tra apparizione femminile e spettacolo, istituendo  nelle attese di ognuno quell’apparizione come l’essenza stessa di ogni spettacolo possibile, o se si vuole istituendo  la condanna dello spettacolo alla funzione voyeuristica che è insita nel suo stesso nome, in barba a tutte le dotte disquisizioni dei critici e di teorici come degli educatori e dei legislatori. Sicché, con buona pace di tutte le estetiche del “minimale” e del “dispiacere”, risulta incrollabile nell’immaginario l’aforisma secondo il quale “la donna è spettacolo”. Ora, dato che il pop ha avuto la spudoratezza  di affidarsi a tale aforisma, perseguendolo  nello scambio simulacrale planetario, ecco che di necessità è soprattutto di donne che qui ci troviamo ad occuparci; senza con ciò negare che vi siano delle forti tipologie iconiche maschili   che possano  assurgere alla scambiabilità di merci simulacrali, soprattutto le icone del “machismo” affette da processi di femminilizzazione: dal campionario infinito, nel nostro caso basterà estrarre Elvis e Mick Jagger, Bowie e Michael Jackson...

Le tre tipologie “femminili”di  cui sopra caratterizzano in ogni caso l’icona come di per se stessa performativa: essa ci racconta un dramma,  anche se si materializza nella téchne di un ritratto, di una fotografia, di un manifesto; essa si carica di didascalie diegetiche, a volte effettivamente dette o stampate ma spesso anche soltanto virtuali, e mediante quelle ci cattura nella sua storia implicita, che poi è la storia che l’immaginario vuole sentirsi raccontare. Ed è allora che l’icona assume  da un lato il potere sacro del simulacro, evidenziando la pienezza e l’emanazione del mana che la costituisce, e dall’altro si fa merce di scambio nel mercato planetario dell’immaginario, valorizzazione concreta del desiderio per il suo transito fino alla morte. Ogni vera icona, insomma, trasforma gli atelier figurativi ed i set cine-fotografici,  ovunque essi siano e di quale natura essi siano, in stage di una performance, ipostasi di un  live.

Questo interesse per la narrazione “in diretta” con la quale l‘icona sorprende chi la rimiri, una narrazione che, come abbiamo detto, ci pone in connessione con una “oltranza”, è stata usata da ogni strategia di potere - religiosa in passato come economica oggi - fin dagli antichi Egizi; ma più spesso mediante una sapiente commistione delle due finalità: l’economico (nel senso più lato del termine, dunque anche psichico) ed il religioso (dunque anche il trascendente filosofico, ideologico, etc.) hanno fin dall’inizio determinato lo statuto della simulacrità. Da qui l’atteggiamento di venerazione che si  confà ancora oggi non solo al frequentatore dei templi, ma anche al visitatore di musei d’ogni tipo.

Su siffatta  strategia  fece già leva Attalo il Grande  per inventare nella sua Pergamo del III secolo a C. il dispositivo stesso del Museo: una successione di simulacri  offerti alla venerazione ed insieme alla riflessione di un eletto pubblico itinerante, nello spazio sacro adiacente al luogo del culto di Atena. Dal dispositivo del Museo ellenistico origina, come è naturale, il registro di discorso ed il potere della critica d’Arte, già consolidati quando nel III secolo dopo Cristo Filostrato  Lemnio inaugurò la scienza iconologica con il suo Eikònes dedicato all’analisi di 64 dipinti di soggetto mitologico campeggianti in un pubblico porticato della sua colta Napoli grecizzante. Fatica cui fece seguito quella dell’omonimo nipote dedicata ad altri 17 soggetti iconici. Nello stesso  periodo toccò al giureconsulto   Callistrato di manifestare  nelle sue Istitutiones le notevoli correlazioni tre le tecniche della Retorica e quella della composizione  delle icone: sul perno della Ecfrásis (Descrizione)  si  veniva così affermando il convincimento della equipollenza tra parola e immagine quanto al loro potere di articolare i contenuti, la comunicazione sia logica che empatica, le conseguenti analisi degli esperti.

Non vi è dubbio che l’iconografia cristiana derivi per modalità e per finalità da quella classica.  Ma fu solo dopo le lotte sostenute  con gli iconoclasti d’oriente – ispirati  da un rigorismo  monofisita  e platonizzante che negava ogni valore alla duplicazione dell’idea trascendente nel concreto materiale della copia – che si affermò il valore dell’icona e la sua equipollenza al testo sacro; principi sanciti da quel II Concilio di Nicea che, confermando il valore di accesso al divino delle immagini sacre, accolse il sostrato culturale della plurisecolare  elaborazione neoplatonica, giunta su  questo  tema specifico fino   alle  nette  affermazioni  di   valore  di   Gregorio  Magno,  Giovanni Damasceno, ed altri esegeti del neoplatonismo in versione cristiana.

Non c’è da meravigliarsi che nei nostri  principati rinascimentali dalla forte economia mercantile l’idea della sacralità del Museo, e dei simulacri in esso accolti, si sia riversata sul valore estetico degli originali, e delle copie in  loro assenza commissionate – ma già la prassi delle “copie” era stata perseguita da Attalo... – e da qui al collezionismo dei principi, inaugurato da Lorenzo il Magnifico; per arrivare ai criteri ed ai dispositivi   d’esposizione con il corridoio vasariano, alias Galleria degli Uffizi, di Cosimo I e poi di Francesco. Da Firenze la pratica principesca del Museo dilaga per l’Europa accompagnata a quella dei multipli d’arte a stampa (xiliografia e tanto altro...) per i dotti ed i ricchi. mentre, il discorso sul valore simbolico - quella che abbiamo chiamato “narrazione dell’oltranza” – dell’icona viene ripreso  in aurei manualetti xilografati diffusi in tutto il continente, specificati per generi e tematiche, sul modello della Iconologia di Cesare Ripa (1593). La riproducibilità tecnica ha poi fatto il resto, come abbiamo già detto. Né ci addentriamo nella weltanschauung della novecentesca scuola iconologica di Warburg che abbiamo già indicato tra i presupposti epistemologici di questa trattazione.

Dunque, la tradizione occidentale dell’icona – oggi globalmente estesa al pianeta – è quella neoplatonica che si radica in dialoghi di particolare spessore del Maestro quali il Timeo, il Fedone,  il Simposio.
Nel solco di essa i teologi della Imagine hanno offerto ai Padri di Nícea un paradigma condiviso  secondo il quale: 

a) L’icona è “somiglianza dissimile” (homóioma) in quanto duplicazione nel concreto (copia)  dell’Ideale trascendente;  essa è insieme il Medesimo e l’Altro  e a ciò deve il suo valore di evocazione mitica; 

b) Come tale l’Icona è in primo luogo medium estetico-rappresentativo, per il quale si traduce nello spazio e si offre nella diacronia del tempo l’Assoluto  a-spaziale  ed a-temporale della Divina Incarnazione. 

c) L’Icona è il “cronotopo”(paradeígma)   che consente di porre in relazione il senso dell’Immagine ed il senso dell’Invisibile, traducendo questo nell’esperienza della Storia, la qualcosa comporta senza dubbio delle pesanti limitazioni rispetto al senso originario, ma anche un innegabile arricchimento che carica di significati l’epifania dell’Invisibile (a questa soluzione si contrappone l’iconologia orientale che, per la sua ascendenza monofisita, vede nell’icona solo una sorta di partenogenesi del divino e come l’invito perché si ascenda ad esso, fuori dalla diacronia storica). 

d) Il valore simbolico, e da questo anche narrativo ed educativo, che pertanto è da attribuire all’Icona, consistendo in una spazializzazione ed in una temporalità (ritmo) poggia pertanto sul valore estetico: la venustas parietum dei luoghi di culto, giusta la teologia platonica dell’equivalenza tra il Sommo Bene ed il Sommo Bello (non così, ovviamente, nella tradizione orientale dove l’iconismo  deve tradurre solo una mistica). 

e) Non si può avere icona che non sia “in throno sedens”, cioè gloriosa e da noi assunta come tale nel ricordo (come ben sa non solo l’arte cristiana, ma tutto lo star-system dei nostri tempi nei suoi più diversi apparati). 

f ) Il valore dell’Icona si sostiene dunque su una mancanza originaria che ci costituisce e su una reminiscenza dell’Assoluto, dell’adesione alla totalità in cui il nostro Io si dissolve: l’Icona è ricordo, confronto e decifrazione con la memoria, e perciò la ripetizione, la replica s’origina dalla sua stessa natura. 

g) Per tutti i motivi suddetti l’icona è degna di veneratio: non l’adoratio puramente teologica della tradizione orientale, ma qualcosa che ha a che fare con la devozione alla venustas, con la forma sensibile dell’ultra-sensibile, di questo  essa è il “ritratto” (ektipoma). 

h) Ne consegue – con ricco innesto dell’aristotelismo della Poetica  e della Retorica nel platonismo – che la simbologia iconica ha tale forza visiva (enérgheia) perché il suo procedimento è metaforico, riuscendo a trasporre nel concreto visibile ciò che è visibile sono nella mente (eidos); ciò fa l’assoluta equipollenza di funzioni della produzione del Visibile e della Scrittura (ed anche la pericolosità del Visibile, come ben sanno i Padri che hanno parlato degli occhi come di finestre sui peccati del mondo!).

In conclusione, dopo Nicea, mentre ad Oriente si persegue il mito originario dell’Icona Acheropita (non eseguita da mano umana) ed essa esclude luci, prospettive e forme della “visione binoculare media”, ad occidente si ravvisa il valore del doppio sensibile, fino a riconsiderare la proprietà naturale di cui sono dotati gli esseri sensibili di generare dei doppi nelle ombre, nelle immagini speculari, in silhouette, dal punto di vista di una venustas che è al contempo di valenza empatica, simbolica e conoscitiva. Vero è che per il Maestro il fine di ogni produzione di immagini non è quello di rappresentare ciò che è nella sua essenza, ma solo ciò che appare, così come appare, cioè produrre phantàsmata,  sicchè  sono  ammesse deformazioni geometriche, illusioni ottiche, elaborazioni ritmiche conformi alle aspettative  di una vista  che si nutre e s’appaga di errori; ma è anche vero che gli eídola  che in tal modo si generano trovano nella venustas l’istanza e la reminiscenza dell’oltre da cui pure derivano, sicchè: “Ogni cosa di cui il demiurgo realizzi la forma e la potenza guardando a ciò che si mantiene sempre identico a se stesso e servendosene come modello, riesce necessariamente tutta bella” (Timeo 28 a-b). Ci pare che non ci sia uno solo di questi principi classici e cristiani sulla teofania dell’icona che non si adatti alla nostra questione dell’epifania live della star.  E se il criterio caratterizzante  questa singolare epistemologia  erotica è quella dello della Venustas,   converrà, tralasciando per il momento tutte le altre icone mitologiche pure in gioco, soffermarsi un po’ sulle caratteristiche iconiche della dea che della venustas  è la titolare, per l’appunto Venere-Afrodite. Vedremo quel che la più accreditata  tradizione iconografica della dea prescrive e potremo trovare straordinarie persistenze di siffatte codificazioni nella formulazione attuale dell’icona seducente della star.

Cominciamo, naturalmente, dagli occhi là dove riluce la massima  attrattiva dell’immagine proprio come duplicazione e quindi come specularità: Narciso dovette prima di tutto guardarsi dritto negli occhi, restituirsi il proprio sguardo grazie all’immagine riflessa sullo stagno, per formulare e riconoscere l’insieme del proprio volto e farne l’oggetto del proprio amore; sintomaticamente ci sono dei nevrotici che non possono tollerare di guardarsi dritto negli occhi davanti ad uno specchio, temono infatti di perdersi in abisso sull’asse della vista  speculare  e dentro il foro senza fondo della loro stessa pupilla riflessa. Queste problematiche da odierna teoria analitica della “pulsione scopica” poggiano ovviamente su profonde intuizioni degli antichi, la cui mitologia è piena di sorprendenti funzioni, legate all’Eros ed alla Soggettività, di specchi, stagni, fonti...Non a caso “pupilla” viene da “pubilla”,  cioè pupetta, bambina: essa è l’immagine che scorge sul foro in abisso del proprio stesso sguardo una fanciulla – anche “puella” proviene dallo stesso nucleo eidetico – che si rimiri allo specchio, presumibilmente stupita e colta da autosoddisfazione del desiderio. Non c’è da meravigliarsi che tale proiezione desiderante sia per definizione femminile: anche la storia del desiderio è stata scritta dagli uomini, favolose età matriarcali a parte (di cui nulla sappiamo). E d’altra parte può vedersi in ciò quella tendenza alla femminilizzazione, l’aspirazione alla totalità androginica, che abbiamo vista  caratterizzare  proprio i soggetti più virili. Insomma, come che sia, l’oggetto della pulsione scopica è donna, è alla lettera una pubilla!

Ora, come guarda Venere allo specchio? Ovvero come si manifesta lo sguardo di desiderio di Venere, posto   comunque che sempre a tale attitudine desiderante si conformi il suo sguardo data la sua specifica natura divina. La tradizione la vuole straba, paeta,   cioè lievemente strabica;  chi la rimiri si accorge che i suoi assi visivi non si intersecano nel bel mezzo dell’oggetto cui si rivolge ma divergono leggermente andando ad intersecarsi in un ideale punto retrostante rispetto a quell’oggetto, verso un campo dell’oltre indefinito. È la sensazione che dà lo sguardo dei miopi e delle belle donne; questo sguardo rivolto ad una indefinitezza, che addirittura può apparire metafisica, conferisce un innegabile fascino poiché lascia  supporre,  a seconda delle circostanze, un atteggiamento di serenità, pensosità, attitudine sognante, malinconia, rimemorazione, rimpianto, in una parola comprensiva di tutto “pateticità”. La Monroe usava coscientemente quest’arma di seduzione e, amabilmente, ci scherzava sopra nella vita privata e nei suoi film (Come sposare un milionario...) La pop-star Anastasia sbandiera seduttiva i suoi occhiali nei live, ma quando se li toglie i suoi magnifici occhi da gazzella non fanno mistero della loro miopia addirittura sensuale. Ecco, possiamo supporre che straba e paeta voglia dire semplicemente “sguardo vago e indefinito  da miope”, e che dunque fosse miope Venere ...o che si atteggiasse a tale, come può fare benissimo chiunque si distragga rispetto all’oggetto contemplato. Ma questa è la caratteristica della Venere Urania, la genitrice di tutte le cose cantata da Lucrezio, prima ancora dea celeste  scolpita da Prassitele  che la vide nascente dalle acque: la Anadiomede che miracolosamente s’era fissata nell’icona aurea, tra lo stupore di tutti, prendendo a pretesto sensibile la cortigiana Frine che inaspettatamente,  con serena  impudicizia, usciva  dal bagno camminando verso  la riva. 

Tale, è ovvio,  è anche la Venere del Botticelli. Ma v’è poi un’altra Venere, l’Afrodite Pandemia  amica dei Satiri, quella dei suburbi e dei postriboli, la Venere carnale efficacemente scolpita nella “Callipige”: gli assi  visivi  che originano dalla sue pupille convergono davanti all’oggetto rimirato e non dietro di esso, ne sfiorano appena la superficie, la carezzano lieve e saltellante trasmigrando da superficie a superficie con erratica voluttà, secondo quell’andamento metonimico dello sguardo di piacere, scambiabile e mercenario, che è stato ben illustrato nella festa barocca di Starobinski. I suoi occhi invitano, s’appellano, ammiccano esibendo un vivido desiderio che non avvolge, non incatena, ma promette di esaurirsi nell’attimo del piacere effimero. Questa Venere che giace con Marte, e viene esibita lubricamente nella rete di Vulcano, che seduce mille amanti ed è irrazionalmente sedotta dal suo  stesso figlio bendato e armato di arco e faretra, mostra dunque i suoi occhi di nera brace, non più cerulei, come ludibundi, saltantes, micantes (che accendono scintille), morsitantes (proprio in quanto “morsicano”), e perfino marcidi e oculi foediti come i Padri cristiani asserivano essere gli occhi imbellettati e sfrontati delle ragazze del tempo. A questa genia della Venere carnale corrispondono le icone delle Cleopatre, delle Semiramidi, delle Circi e Armide.

Nel cinema – fatti salvi gli exploits  delle Gloria Swanson,  delle Vivienne Romance e delle Mae West – è stata per l’appunto B.B. a scardinar e il canone dello sguardo   da Venere celeste  imperante da Lillian Gish alla Garbo, dalla Bergman a Michèle Morgan, dalla Turner a Marilyn, e a generalizzare il canone degli oculi  morsitantes.  Ben inteso, in buona compagnia quando accorreva: Liz in Venere in Visone e come “Maggie la gatta”, Jennifer Jones in Duello al sole,   e così via. Oggi quasi tutte le pop-star,  così come le top-model, hanno adottato questo canone più scopertamente libidinoso: sono di solito occhi da “Venere carnale” quelli di Madonna, di Christina Aguilera, di Beyoncé, della Winehouse e quante altre; ma all’occorrenza, da magistrali performer, eccole illanguidirsi – nel blues  o nel soul per esempio, o per un intervento estemporaneo evocante un ricordo commosso... – e sapere adottare lo sguardo vago e assorto dell’Afrodite Urania.

Torniamo allora a questo ceruleo sguardo celeste,  glukumeílichon  (dolce come il miele), là dove il gruppo gl assicura la connessione con il cosmo – glauco è l’occhio, ma dallo stesso gruppo consonantico gli Attici coniavano il cielo terso, la brezza di mare, il sorriso, il gioco infantile, la bambola... – per dire che questo sguardo è anche ugrón,  cioè umido, tremulo, con una lacrima sempre pronta a fermarsi tra palpebra e palpebra, e perciò trasparente come il cristallo e proprio riflessivo come lo specchio. Questa convenzione, passata alla agiografia delle martiri cristiane, è stata ben nota allo star-system  hollywoodiano  che ha abbondantemente  usato della glicerina per ottenerne l’effetto nel primissimo piano. Il resto lo facevano la miniaturizzazione dei lineamenti ed il flou aureo del contesto ottenuti dal teleobiettivo, la sapienza delle luci (ma su ciò, e passando poi dai canoni della “voltificazione” a quelli dell’allure, della ritmica del plesso solare, etc., rimandiamo al nostro Figure dell’Immaginario).   In definitiva, Platone  è transitato fino ad Hollywood: le sue sfere del cosmo iperuranio tremulano nello sguardo delle star. Le loro palpebre socchiuse e vibranti – proprio per reggere la tensione superficiale della lacrima–specchio – contornate dal rigo nero cosmetico fin dalle Egizie – il nero e panoramico “occhio di bove” – danno infallibilmente una conformazione “a mandorla” ad occhi che devono abbracciare il cosmo e non considerare nessuno.

Altra connotazione della nostra Dea, connessa alle qualità dello sguardo, la vuole serenamente o maliziosamente sorridente. La “ridente Afrodite”, “l’amica del riso”, “colei che soavemente sorride”, e così parafrasando, la definisce la pseudo–Omero nel suo Inno. Naturalmente la chioma è d’oro e sparsa alla brezza del vento primaverile, d’avorio il collo sinuosamente “a cigno” – a differenza del collo taurino degli eroi – e tutto l’incarnato dal petto alle braccia, rosee le gote, e rosse come il rubino le labbra. Esse devono allontanare il sospetto di una simbolizzazione della torbida fase orale dell’erotismo infantile, tanto più data la costante presenza dell’Amorino sempre avvinghiato alla sua Genitrice, e perciò sono labbra carnose ma minuscole, paragonate a piccoli fiori di campo o ai “rubini” dei colombi in amore (i beccucci rossi) dai barocchi come Góngora e Marino. Ma il tipo “maledetto” della Semiramide o della Maddalena ammette invece la bocca grande, vero accesso dall’esterno all’interno della corporeità e viceversa, vero organo di suzione capace di trasferire, rovesciare, modulare nel ritmo l’interno e l’esterno.

Torniamo così alla dicotomia tra le due Veneri, perpetuata ancora oggi. Ma anche in questo  caso la rivoluzione rappresentata da B.B. ha rovesciato il canone dominante e non c’è più attrice seducente, top model, pop-star che non mostri temeraria le sue grandi turgide labbra. Queste si aprono in ogni caso su quei filari di piccole perle smaglianti che sono i denti: qualità un tempo favolosa cantata nei miti ed oggi sempre a portata dell’evoluta odontotecnica. E siffatti deliziosi filari hanno la loro parte nel sorridere, morsicare, suggere d’intesa con la bocca e con gli occhi. Così come, spudoratamente, la sua parte reclama oggi anche la piccola lingua palpitante, umettante, giocosa tra i traslucidi filari salivari, primissimo piano che nessun cameramen si lascia più sfuggire se ha a che fare con le belle ugole d’oro...rosea, di preferenza, e in bel contrasto innaturale con il rosso delle labbra...ma talora non proprio rosea, evocante nella sua patina intensi e segreti lavori, non più tanto segreti...

Un cenno anche per la fronte; essa è la sede del pudore, dei pensieri che si leggono limpidi – “le si legge in fronte”, per l’appunto – e perciò sarà spaziosa e candida, e in essa ci si potrà rispecchiare. Ma nella “altra” Venere, la Pandemia, sarà inverecunda, expudorata, degno coronamento di quel “viso da cagna” con cui Catullo e poi la tarda latinità bollano le meretrici. E da ciò la qualifica di “sfrontata”, ovvero dalla fronte breve, magari perché travolta dal fluire scomposto della chioma e dalle selvagge sopracciglia.
C’è bisogno di ripetere che anche in questo caso è il secondo modello quello egemone oggi tra le pop star?

Resta da dire dell’allure di Venere, dato che artisti e poeti concordano con quanto icasticamente riuscì ad evocare Virgilio, quando l’affranto figliolo di lei, Enea, la riconobbe d’incanto: “Et vera incessu patuit Dea” (Eneide, lib. I, 405). L’incesso  di  Venere articola una perfetta distribuzione  delle masse muscolari, in equilibrio rispetto  alla linea mediana, nel decorrere fluente e ritmico del movimento, le “sincinesie” delle mani, il contraccolpo rotondo delle anche, la stupefacente  levità nella fase  d’appoggio e di “carico” del piede e dell’avampiede. C’è bisogno   di ricordare che l’Allure  era attento oggetto di studio  per i divi di Hollywood  (non, invece, in Italia!)?   Questo studio è stato in tutto ereditato dalle passerelle della moda e, da lì, è passato alle pop-star grazie soprattutto  all’irruzione del fenomeno Madonna. E dobbiamo anche smentire gli ortopedici: il tacco alto dona e aiuta al conseguimento della perfetta allure. La Venere di Virgilio e di molti altri calzava “alti coturni d’oro” il cui tacco snello, da valutare almeno in cinque o sei centimetri, la aiutava nella corretta levità dell’appoggio. 

Certo, oggi la popstar arriva come niente ai 14 centimetri di tacco a spillo... bene, ortopedia a parte, l’effetto è tutt’altro che disprezzabile: mentre la levità dell’appoggio diviene massima, quasi come in una danza sulle punte, i roteanti movimenti  muscolari di cui sopra si  fanno più  sinuosamente  accentuati, ma l’intera figura tende a spezzare la sua direttrice tra il busto in  avanti, le anche all’indietro, le ginocchia lievemente piegate. Ciò riproduce la mitica postura delle divinità indù, e delle Devadasi, detta tribangi, postura che è un’esplicita offerta di sacro erotismo  attraverso la messa in evidenza del plesso.  E dunque, ben vengano i vertiginosi tacchi a spillo dell’Aguilera e di Tina Turner, scintillan- ti d’oro o di cristallo come i coturni della Dea.

Chiudiamo questa digressione  sull’icona  di  Venere sorprendendola  in  un vero e proprio  live,  quale ci viene descritto  dalla fantasia  di Apuleio ne L’Asino d’oro (lib. X , 31), episodio del Giudizio di Paride. La Dea – come sempre “suave subridens” – per battere la concorrenza di Giunone, “puella vultu honesta”, e di Minerva dagli “oculis in aspectu minacibus”, non esita a lanciare al seducente giovane proprio “occhiate assassine” da Pandemia, ma non si limita a “saltare solis oculis”, perché avvolta da una leggera sopraveste di seta ondeggiante al vento, la chioma aurea sparsa e libera, sugli alti coturni, si esibisce in una performance di canto e danza sostenuta dal coro degli amorini, boys ante litteram. Per non tediare con il latino, riportiamo la famosa traduzione rinascimentale del Firenzuola: “Ma molto maggior soavità era poscia veder Venere muoversi secondo gli accenti di quel lor canto, e quei lascivi e graziosi passi, fra le ondeggianti piume di quei pargoletti camminando, or quelle vive luci in atto mansueto girare, or con benigna ferita e con gentili minacce voltarle, or mostrare che gli occhi stessi saltando, negli altrui cuori ne facesse far pruova quanta dolce forza ha la vista nel bel regno d’Amore”. Si dirà che un tale miracolo di epifania nell’icona s’appartiene a una Dea, non alla genía dei mortali.

Il  cinema dello star-system, i rotocalchi ed il  pop-rock hanno comunque inaugurato innegabilmente una nuova “genía”: da Marilyn a Madonna abbiamo le generazioni delle icone che intenzionalmente, geneticamente, vivono nella coincidenza tra l’essere  reale e l’essere-per-lo-spettacolo-planetario, ovvero l’essere  per il  marketing; la generazione delle star  per le quali è impensabile chiedersi, come ci si è chiesto per Gilda, come siano poi davvero: la loro esistenza  è l’apparenza fictionale, e l’apparenza fictionale è un valore di borsa nel mercato dell’immaginario. Per questo si tratta di star radicalmente, generazionalmente “pop”. Non a caso, proprio per questa sua spudorata verità nell’apparenza, Cesare Zavattini – il teorico del non-attore e del pedinamento – non aveva difficoltà   ad includere Marilyn nel campionario strategico del suo neorealismo, tra i prototipi della “bellezza del vero”, ma in questo  caso il  vero della finzione che con l’attrice si  dà ingenuamente e magistralmente a pubblico spettacolo. Tant’è che la bella baratta la sua stessa beltà con il compenso mercimoniale nel malizioso ma disarmante discorsetto metalinguistico al suocero alla fine de Gli uomini preferiscono le bionde; e lo stesso fa Madonna in Material Girl,  metalinguaggio di metalinguaggio, potenza dell’icona al cubo.

Infatti le mitologie non sono soltanto quelle del mondo antico o delle sue manifestazioni in chiave iconologica di “rinascita del paganesimo”, ma anche quelle della modernità e della post-modernità, come sostiene Morin; non a caso nell’intitolazione di questo capitolo abbiamo evocato intenzionalmente Barthes. Ieri, le
grandi favorite ed avventuriere, le divine della lirica e le étoiles della danza, le vedettes del Variété soprattutto...nel Novecento l’Olimpo dello star-system  hollywoodiano,  poi  gli  eroi del catch, dello strip-tease, dello sport, della moda, per l’appunto del rock e del pop in tutte le sue varianti, fino ad oggi, fino ai testimonial TV d’ogni tipo. E sono mitologie che si  contaminano volentieri, o addirittura che fagocitano se  stesse;  così  se Madonna vampirizza Marilyn c’è chi vampirizza evocando un proprio vicino di pratiche: Bubblé su  Sinatra,  la Winehouse  sulla Holliday, così  via. Ma ognuna di queste divinità del nuovo Olimpo – solo in pochi casi  davvero immortale, però di sicuro affollatissimo – si articola poi per tipologie molto diverse tra loro, corrispondenti a mitemi della affabulazione immaginaria: lo on the road,  il country,  il jet-set,  l’etnico, il new-age,  il techno, ... etc...etc; si potrebbe non chiuderne mai l’enumerazione, comunque tutti mitemi trasversali e contaminanti tra le più lontane regioni della produzione mitologica. Ma di ciò non oltre: non si finirebbe mai l’inventario e l’esemplificazio- ne...e si cadrebbe alla fine nel sociologismo becero degli accademici.

C’è comunque una convinzione generalizzata, un dato che da “antropologico” si è fatto “sociologico” per via dei suoi rivoluzionari effetti sull’immaginario planetario: la convinzione della nascita prepotente di una nuova razza umana – la potremmo definire la “razza globale” – che appare privilegiata quanto a capacità di riprodurre la qualità iconica nel live. Cerchiamo di spiegarci. Lo Star-System  di Hollywood  aveva assegnato la funzione iconica in maniera specifica al tipo anglosassone – dalla Gish e dalla Garbo fino a Kim Basinger, Uma Thurman ed oltre -  ed aveva accolto in via subordinata altre possibilità di sacralizzazione iconica sotto la comune categoria dell’esotismo. Per quanto nutrita e variegata fosse questa categoria esotica, essa accoglieva insieme nel suo dominio, offerto all’immaginario delle masse, il “matador” ispano-italo-arabo Valentino così come più tardi il tenore latino Mario Lanza, il “cinese” Richard  Barthelmess,  la mulatta Dorothy Dandridge come oggi Halle Barry, le sensuali italiche dalle ascelle non rasate quali Sophia Loren e le altre “maggiorate”, le pin-up francesi da cave esistenziale dalla  Greco a B.B., e chissà quanto altro...a tale categoria era però negata l’attribuzione dell’aura luminosa ed anche totalizzante, quella delle anglosassoni patinate, ed era invece assegnata una sorta di aura in negativo, segno di un potere degli Inferi e fatta di dissipazione e perdite per un fantasma di erotismo , differente dal salubre erotismo anglosassone, un’aura di luminose tenebre che si diffonde e contagia con il sudore, gli odori, i capelli, i pori di una pelle dal lucore non uranio ma luciferino...De resto, questa categoria era già stata formulata dal live  scenico: Josephine Baker e Billy Holliday insegnano, come più di recente Diana Ross e le Supremes.

Chi emana “aura esotica”, e dunque ctonia, solo con un duro e lungo dressage può poi trasformarsi ed essere assunto nell’Olimpo auratico, ovvero nell’età dell’oro. È toccato per l’appunto a Sophia che, mutati look e pelle, si è vista aprire le porte dello star-system di Beverly Hills; è toccato a Gina che non a caso in Naked in the World ha visto mutare la sua chioma corvina nel rosso fuoco sacrificale e salvifico di una prostituta d’alto bordo (latina naturalizzata americana); ma ciò non avveniva senza la permanenza di residui, scorie, che segnalavano eroticamente per l’appunto qualcosa di contaminato.

Ora, il pop ha travolto queste recinzioni categoriali hollywoodiane, queste utopie razzistiche di splendori incontaminati e separabili dagli altri luciferini, ma per affermare una sorta di razzismo  anche più egemone, quello legato per l’appunto all’apparizione di una nuova razza globale che ha le caratteristiche di una super-razza. Questa mescola in varie gradazioni, tutte accettabili, l’aurea chioma anglosassone con le componenti fisiche latine, le portoricane o comunque black, le cinesi e mongoliche, le asiatiche  indiane o arabe... Le super-razza che ne scaturisce manifesta una complessione ed un atletismo corporei d’eccezione, una qualità luminosa e tattile della pelle che appare migliore del raso – quasi un rivestimento sintetico sebbene naturale, e di compattezza perimetrale assoluta -, dei lineamenti di sublime perfezione che riescono a coniugare il turgore a bocciolo delle labbra mulatte con nasini francesi miniaturizzati, lunghi occhi a mandorla, zigomi alti, ovali perfetti e crani dolicocefali ariani, un colorito d’ambra dai riflessi d’oro. Alla super-razza globale, l’attuale razza iconica per eccellenza, appartengono  senza dubbio Beyoncé e Mariah Carey, Shakira e la Aguilera, e la Winheouse, Rihanna e Leona Lewis ed Alicia Keys, Fergie, Pussycat Dolls ed infinite altre, trovando già per molti versi uno splendente prototipo maschile   nell’abbronzato Elvis dagli occhi cerulei in contrasto con il lucido ciuffo nero e il sudore latino della pelle abbronzata. Anche Barack Obama viene fuori da questa super-razza elaborata dalla cultura planetaria pop-rock, tanto che di lui si dice che è vincente perché non è completamente nero, e non è completamente bianco, e che non si sa bene di che razza sia, si sa solo che iconicamente funziona. Non a caso  è stato definito come “la rock-star della politica”.

C’è stato, per la verità, un progetto di elaborazione sintetica in direzione di questa genia d’eletti, ed è stata quello tentato coraggiosamente e pionieristicamente da Michael Jackson: gli interventi fisiognomici con bisturi, immissioni, sottrazioni, interventi chimici sul colorito della pelle, complesse elaborazioni di look hanno sortito  un prototipo di “sintesi” che ha retto per molti anni – senza nulla togliere ai meriti del bagaglio tecnico della talentuosa star – e che ha fatto impallidire le operazioni della mutante Orlan ed i tentativi di pelle sintetica di Stelarc, ponendo il pop di prepotenza nell’ambito della più estrema Body-Art. Per quanto pagata da Michael a caro prezzo sul piano del mito sacrificale e personale, si tratta di una direzione da tenere d’occhio, perché non ce la sentiamo   di escludere una sua futura ed esplosiva affermazione  nella rete simulacrale a venire che connetterà  corpi reali, corpi-cyborg, immagini di sintesi  ed ologrammi virtuali. E d’altra parte, già oggi non possiamo negare elementi di sinteticità, mirabili effetti alla lettera di “plasticità” in star della super-razza come Beyoncé, pur additate come campioni di “naturalità”.

È evidente, tirando le somme, che la nuova super-razza deve il suo carisma al fatto di ripresentificare la razza originaria: non già quella indoeuropea alle pretese origini della civiltà e della storia umana, ma quella divina dell’età dell’oro, la razza archetipa comune a tutti gli esseri antropoformi viventi in quell’ideale età; le star di cui sopra ne offrono la reincarnazione, ne sono il live, e per questo il loro live è eminentemente iconico.

Tuttavia, la constatazione di questo nuovo primato razziale, la razza globale come divino  ritorno  degli esseri  della razza archetipa, delle creature del “sogno” e dunque, ritualmente, degli antenati, non ci esime da una più analitica considerazione di quella apparente totalità che è l’epifania iconica.

A noi qui interessa cogliere i tratti fondanti dell’icona mitologica, la fisionomia dell’oltre che appare rappresentarsi per noi. La sua compattezza  e totalità miracolosa non deve trarre in inganno: essa si tende su di una molteplicità di elementi di virtuale separazione – abbiamo visto, ad esempio il ruolo della capigliatura-nembo – ed addirittura disgregazione nei quali è insita la stessa perenne minaccia auto-distruttiva;  e chiamiamoli pure, ormai, inesauribili rapporti di scala e/o dispositivi di potenziali catastrofi. Una per tutte: la bella immagine apre sempre alla drammaturgia pubblica e privata di un soggetto “perverso” e “polimorfo”. Queste icone mitologiche, infatti, invertono i sessi, evocano satiriasi e ninfomania, pedofilia e sadomasochismo, schiavitù all’alcool ed alle droghe, violenza e corruzione, follia e predisposizione al crimine, o semplicemente cinismo  e avidità dell’ego: a ciascuno  il  suo;  nel supermercato degli orrori ogni mito s’adorna vistosamente del suo ciarpame che dovrebbe restare inconfessabile! Ed è quel ciarpame che ne fa l’aura che rinvia  all’Eden  dell’eterno piacere. 

Quanto il  satiriaco  “macho”  Georges Michael si è fatto sorprendere a farsi violentare da canaglie in un cesso pubblico, la sua “aura” non ne ha risentito affatto,  anzi si è caricata di quella contraddizione trasformando la polimorfia in una più accesa “poikilía”. Quello stesso ciarpame sovente si materializza, come un mana che si espande, negli oggetti di un reliquario sacro che finisce prima o poi all’asta; ed il ricavato di quella asta finisce magari in opera di bene: per gli orfani, l’ambiente, gli animali, gli ammalati...cosicchè il mercimonio di sé, che sarebbe spregevole per qualcisi mortale, diviene esaltazione del valore quando a vendersi è l’icona mitica nel suo esibito back-stage leggendario, o quando vende i frutti materiali di quella sacra prostituzione, il suo reliquario. Perché tutto  ciò possa accadere, occorre che vi siano delle polarità in tensione nell’icona, la possibilità di una moltiplicazione nelle sue parti e quella di una inesauribile dissipazione. Ora, queste polarità in tensione che tracciano la perfezione della silhouette epifanica ci sembrano  soprattutto consistere in due diversi processi di elaborazione, contrapposti e pure dialetticamente relati: la “voltificazione” e, di contro, la relazione con l’oggetto privilegiato.

La “voltificazione”  e una processualità  in  progress  che Morin  e Deleuze hanno attribuito all’affermazione dell’icona; essa finisce con l’identificare il totale con quella sua parte che è il volto, e addirittura finisce con il proporre il volto iconico come una sorta di metalinguaggio del volto reale: il volto della star, infinitamente riprodotto, ci evoca nella sua sublimità il volto stesso   della star, ne è l’emblema, il  brand  che ne consente la veicolazione. Dunque, quando poi la star appare nel live, il suo volto rimanda a quello stesso seriale processo di “voltificazione” che si è esercitato sul suo volto, e da tale rinvio nell’immaginario ricava un’aura ancora più potente, proprio in quanto miracolosa incarnazione di un brand. A margine, tiriamo due conclusioni: la prima è che Benjamin aveva davvero torto quanto pensava che la riproducibilità  seriale  potesse cancellare l’aura dell’opera; la seconda deve constatare che Marilyn è stata l’artefice di Warhol e della sua concettualizzazione “pop” e non viceversa, e l’intelligenza dell’artista è consistita nel limitarsi ad accogliere e manifestare questo dato di fatto nella sua opera seriale. Quanto all’oggetto privilegiato, ne abbiamo già detto, chiarendo che esso origina dal bastone sciamanico, trasposizione del pene corporeo nel fallo simbolico fuori dal corpo, e da lì subendo infinite trasformazioni morfologiche, ma non di funzione.

“You are simply the best”, recitava una canzone anni ’80 di Tina Turner, allora dea della relazione tra totale della silhouette e “voltificazione”. Questa è l’esito  cui si  dedicano schiere  di  stilisti,  di  truccatori, di  acconciatori, in sostanza di un’operazione di professionalità delle pratiche e di potenza della produzione, per giungere ad un’ipostasi che non può essere modificata senza un tale pubblico trauma da mettere in forse   la futura carriera della star. Quando Welles volle distruggere  nella moglie l’ipostasi di Gilda, rischiò di rovinare per sempre  la carriera a Rita, e probabilmente era un rischio sadicamente calcolato. Quando la Roberts si troncò la chioma da Pretty Women per mutarsi nella piccola fata  Campanellino, dovette poi sopportare anni di eclissi hollywoodiana...fino alla ricrescita della chioma. Più intelligentemente, Britney Spears dapprima s’è rapata a zero, alimentando con la follia auto-distruttiva  l’aura della sua  stessa icona compromessa,  poi  però s’è  subito messa  addosso  un fluente parrucca d’oro, in  tutto simile  alla chioma di prima, offrendosi come icona restaurata, e dunque rigenerata. Certo, non è più esattamente la stessa cosa, ma è bene che sia  così: come abbiamo già detto, una piccola sfasatura dall’icona nascente a quella perdurante, un piccolo décalage di beltà come i capelli un po’ più corti o un po’ meno tempestosi, una piccola cicatrice ricavata in un qualsiasi incidente, una incipiente ruga, qualche etto in più nella sublime silhouette sono cose che il pubblico adora, sono le stimmate dei “contrassegni di morte”, la riprova che la creatura che appartiene all’Oltre si è offerta al nostro libidinoso sadismo. L’importante è che il processo di “voltificazione” giunga a proporci alla lettera il “mostro”, cioè  il sacro portento. E non v’è chi non veda della mostruosità nell’assoluta bellezza efebica di Elvis, così come già in quella di Brando o nella innaturale levigatezza da maschera di porcellana di Marilyn. 

Questa “mostruosità” può poi spingersi a mostrare davvero l’animale, il bestiale che è nell’icona, secondo la sua specificazione di genere. Così quando la bella Tina Turner intonava quel refrain – simply the best ... – non v’era chi non vedesse in lei la belva carnivora, la tigre nella flessuosità della sua silhouette e nella protensione delle grosse labbra da negra laccate di rosso, nel ruggito della loro vorace apertura sulle chiostre scintillanti  dei denti candidi: un’apertura da bocca-antro, duplicazione in scala  della cavità sciamanica. Ecco, nel pop-rock, non è mai venuta meno la pratica del “teriomorfo”, del simulacro del dio o semi-dio in forma di animale. E, insieme al teriomorfismo,  la  pratica della “chimera”, ovvero  della  creatura divina  risultante, mostruosamente, dall’assemblaggio dei più diversi animali della più fantasiosa zoologia mitica.

C’è chi è magistrale nel “volto-maschera”, nel “volto-cartoon”, esteso in anamorfosi, nel “volto-bestia” (gorilla-leone), come in tutte queste cose lo era, per esempio, Nina Hagen, maestra di mimica, microfisionomia e trucco, o, in maniera più romantica e sensuosa,  l’allieva del mimo Lindsay  Kemp Kate Bush. C’è chi la “voltificazione” la volge nell’urlo della follia, dell’ira, del male di vivere, o contro la società ( Joe Strummer cantante dei Clash); chi la volge tutta in  mimica nel commentare, sorprendersi,  ridere, arrossarsi  gli  occhi d’emozione, in perfetto stile comedy (anche Beyoncé  sa farlo).

Mick Jagger, dalla sublime silhouette, gioca a partire dalle labbra sulla propria “voltificazione” seducente e lussuriosa, ma la piega anche alla rabbiosa instintualità  del teriomorfo, ruggendo, saltando, aggredendo vocalmente e fisiognomicamente; poi si fa essere chimerico assumendo sembianze da clown, da menestrello, da “grillo” gotico di un medioevo fantastico; e infine intraprende anche la concitata relazione con il suo oggetto, un microfono quanto mai strapazzato e asperso di brillante sacra salivazione. Ma c’è chi l’oggetto l’individua nella propria chitarra o in un altro strumento devastato e, alla fine, magari platealmente distrutto o incendiato; chi l’oggetto l’individua nel satin che fa da buccia alle proprie sinuosità, come Mariah dai dolci fianchi e la soirée suo “habitat”; chi, come Amy dal romantico vitino di vespa anni ’50 nel mortale bicchiere di assenzio  poggiato per terra, accanto alle scarpette dal tacco a spillo, di continuo preso e vuotato e di continuo riempito da inservienti-aguzzini.

Naturalmente pratiche di silhouette, di voltificazione, di relazione con l’oggetto  si espandono e replicano dalla star ai suoi accoliti lì sulla scena (ma anche alla moltitudine dei fan in preda al rito del mimetismo). Così boys and girls  moltiplicano  abbigliamenti feticisti,  oggetti apotropaici, atteggiamenti energetici da bestiario e quanto altro. Questi procedimenti costituiscono il sale della scena ed il vero artista ci sguazza, ne fa le metodologie sia del suo professionalissimo rispetto della “scaletta” dello show, precostituita ed infinite volte riprovata insieme a tutte le gag con i fan, i musicisti, i tecnici, il pubblico..., sia della improvvisazione che è sua propria, non simulata, che risponde però ad un proprio ben collaudato repertorio di abilità. Quanto a siffatte capacità di trasformare la “scaletta” in autentica performance, David Bowie ha lasciato, nel ricordo pallidamente fissato in clip e film, eventi luminosi: la scena era il suo “must”. E così Freddie Mercury. E poiché al pubblico piace anche riconoscere , evocare, tra le pieghe della contaminazione, che dire di David Bowie-Amleto, di Freddie Mercury-Nijnski ed, oggi, di Beyoncé-Josephine Baker in gonnellino di banane? Ma, dato che siamo alle pratiche ed all’ensemble, tra voltificazione ed oggetti, che dire – ben prima delle ostentazioni di sacra  volgarità hip  hop – del sadico  rapporto tra il patron Kim Creole e le servizievoli Coconuts?... Lui, discendente con le sue belle da una limousine, con quell’aria da pagliaccio, da clown bianco-domatore, tutto bastone e cilindro e pettacci di frac argentei, il volto da scimmia, e loro in sinuosa silhouette al mercato delle schiave, alla pubblica esposizione del palco. Ma la produzione era potente, e la pratica accurata: dieci soirées dieci, costosissime, erano gli abiti che attendevano le belle dell’harem di re-scimmia, sottoposte dietro le quinte a pratiche di fregolismo  anche nel trucco e nelle acconciature.

Ma in definitiva è un tratto, un gesto, un particolare, quasi un nulla quello che davvero “sigla” le più amate epifanie, che ne fa una ossessione nei desideri dell’immaginario: la virtuosistica tastiera della partitura gestuale di Mercury, o il suo pugno chiuso di vigore e di rabbia, la disperata sessualità dell’approccio allo strumento musicale di uno Springesteen, Peter Gabriel in “caduta libera” dal palco sul pubblico per infrangere la barriera della ribalta e salvarsi nel mare dell’affetto (pratica divenuta uno stereotipo dei film rockettari di Hollywood), il vocalist Al Jarrea che mima con le dita il suono del flauto mentre canta, o ancora le palme al cielo invocanti la potenza divina come in un gospel (ad esempio, Angus Young) e magari il pubblico che risponde palme al cielo, le vere e proprie interpretazioni microfisiognomiche da “musical comedy” di Cindy Lauper o di Boy George, e – dagli Scorpions agli Stones – il dito puntato sulla platea in un insurrezionale appello diretto: “tu” e “tu” e “tu”..., o invece il dito malizioso tra il mento e l’angolo delle labbra come fa Christina Aguilera sgranando  gli occhioni e socchiudendo la bocca, da pin-up anni ’40...ed infiniti altri artifizi di un teatro di pratiche, del “più grande spettacolo del mondo”dove le pratiche fioriscono e riconfluiscono nella prima e genitrice di tutte, la pratica epifanica dell’icona.

Ma infine tutto s’avvolge nella coltre di fumo, pareti di fumo colorato da emozioni che sale a sommergere gli dei, che progredisce inesorabile verso l’aphanisis. I Led Zeppelin rafforzavano il momento con la policromia sempre più sfrenata di petardi da fuoco d’artificio tra le nebbie. Fumo che magari si replica in scala nell’accensione di una sigaretta, nel suo rosso brillio sull’ultimo assolo di chitarra, come faceva nell’estasi Lou Reed, o Keith Richiard degli Stones, fumo che sale   in una fragile scia che preannuncia il nulla, il fumo del cigarillo di Paco De Lucia che il “tocaor”, spezzato l’ultimo pianto, ha impigliato tra le  corde della sua chitarra flamenca, fumo che ancora resiste, si spegne, vibra, resiste, mentre tutto intorno si fa buio.

Come nella cave  più  intimista,  così  nell’immensità  degli stadi.  Allo  stesso modo, tra cortine di fumo sempre più dense si dissolve il corteggio delle ninfe, e l’oro dei capelli di ogni nostra Shakira viene spento lentamente dalla coltre cinerea: resta lì, stampato sulla cenere, il contorno sinuoso di un’ombra, per un attimo, poi solo il desiderio che ha bruciato l’oro ed il nulla divino.

Renato Tomasino, Live. Iconologia della Star. (In: The Rop. Neofigurativo. Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell'Immaginario, N° 3, Palermo, 2009, pp. 180-205)












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Losfeld ringrazia.