domenica 20 febbraio 2011

Michelangelo Merisi da Caravaggio, detto Il Caravaggio.Le opere qui in esame risultano caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.

Caravaggio. Le opere qui in esame appartengono a tale difficile periodo: del soggiorno maltese, di quello siciliano, del secondo soggiorno napoletano. E risultano tutte caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.


Memorie XXX. Colme di Cassetti.

CARAVAGGIO
Le opere qui in esame appartengono a tale difficile periodo: del soggiorno maltese, di quello siciliano, del secondo soggiorno napoletano. E risultano tutte
caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.

Che poi ne acuì, nella leggenda che circonda la biografia, l’immagine a volte distorta – di “pittor maledetto” e di “pittor ribelle”.  Distorsione che si registra ben sino al 1951-52, quando, a seguito di importanti studi di Roberto Longhi, che anche ne curò una importante mostra, la nera leggenda intorno all’uomo si intersecò con evidenti incomprensioni e distorsioni anche della vicenda artistica. 

Già le fonti del periodo stesso dell’artista: Baglione, Mancini, Bellori, pur essendo preziose poiché dettagliate sulla vita ed opere, ne risultano nei giudizi fortemente tendenziose.

Nel periodo successivo si registra un vero e proprio silenzio, in merito ad ogni approfondimento sulla figura ed opera di Caravaggio.

Il merito del Longhi è quindi notevole, avendoci restituito sia l’artista nella sua sofferta dimensio ne umana, sia in quella – eccelsa – del valore e spessore artistico.

Dal 1952, quindi, gli studi sul Caravaggio risultano numerosi.

Con specifico riferimento alle tre opere in esame si individueranno quindi quegli elementi attinenti al loro principale portato simbolico: l’ansia e la speranza per una pronta grazia, l’angoscia e la disperazione nella cupa attesa, il sentimento cristiano – di un cristianesimo difficile, di protesta, evangelico – a cui insistentemente nelle tre opere s’appella  nell’invocare il perdono.

Ma per pervenire a questo, è necessario ripercorrere alcuni tratti e della leggenda e del suo sfatamento.

I primi suoi contatti con gli ambienti innovativi (riformati) del cristianesimo lombardo, a loro volta eredi di una lunga tradizione di fermenti medievali, tesi a rinnovare la Chiesa in funzione evangelica, si registrano già nei primi anni della formazione: 1584-1592.

E’ nel periodo romano, specie dopo il primo difficile inserimento, che, al servizio del cardinale Del Monte, la sua produzione si scontra con una critica abituata al gusto celebrativo e delle grandiose rappresentazioni. E’ già un pittore di frontiera. Una tendenziosa e distorta critica da lì a poco lo presenterà quale artista insofferente alle convenzioni, e ribelle. E con ciò si intende alle regole dell’accademica maniera. 

Nelle opere di questo periodo, già Caravaggio innova fortemente sia le categorie dei soggetti rappresentabili, sia il modo stesso della raffigurazione. Supera anche il proprio naturalismo lombardo, concentrandosi non già su una generale “naturalità e veridicità raffirativa del soggetto”, bensì su di una potenza espressiva che si concentra su pochi sceltissimi elementi tratti dal vero.

E’ appunto la frequentazione degli ambienti culturalmente raffinati del suo mecenate e committente: Del Monte, che gli offre quel bagaglio di temi e di riferimenti a far sì che la produzione di questo periodo ne risulti non una semplice copia della realtà, bensi un filtrare l’aspetto della realtà attraverso un animo fortemente emotivo.

E’ dunque un approccio a quella caratterizzazione di arte fortemente simbolica e piena di riferimenti culturali, che da lì innanzi sempre più sviluppò. La tradizione di un Caravaggio semplice, a volte popolaresco, erede di certo tratto “deformante” del naturalismo lombardo è quindi ormai del tutto accantonata.

Nelle sue opere si vede una grande tensione morale, un piano di idee, certo a volte disorganizzato, ma ciò è una delle conseguenze – anche – della vita non certo regolata in cui ebbe più volte a dibattersi.

La produzione degli anni 1595-96 è quindi importante, poiché basilare per tutto un suo successivo sviluppo:
-  studio della classicità ma trattata con un abbassamento dei suoi valori in una resa pittorica che non li elegge a modello, contrariamente all’uso imperante di ritenerla sublime e di raffigurarla idealizzata;
-  metodo di concentrarsi su particolare resa luministica di alcuni effetti, su di essi portando a concentrarsi l’attenzione dello spettatore;
-   porre in primo piano le allegorie riguardanti i sensi, ma in tono minore, approfondendo l’analisi sul mondo dei semplici e dei reietti; cosa che il mondo aulico, celebrativo, accademico, dell’epoca, completamente respingeva anche quale solo concetto;
-  approfondimento, man mano, di una sempre maggiore intima riflessione dell’ordine morale delle cose, della vita, della società;
-  sviluppo, sempre maggiore, di allegorie evangeliche, ma sempre viste in una ricerca di dialogo con quella Chiesa ufficiale che ormai aveva ridotto la religione a formule e gesti; è forte la richiesta di Caravaggio, nelle sue opere, che tale Chiesa si riformi; e che si modelli anche sui poveri e sui reietti, non solo sui ricchi e potenti; è il famoso quanto antico problema se la Chiesa doveva essere povera, o ricca; il che niente altro voleva dire se dei ricchi o anche dei poveri;
-  perfezionamento, ultima fase, in connessione con la sempre richiesta di perdono, dei cicli pittorici in cui è evidente il messaggio dell’artista in merito all’importanza dell’amore divino, e delle sua misericordia.

Barberini.

1.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta che decapita Oloferne, 1598-1599; Olio su tela, cm 145x195. Roma, Galleria nazionale di arte antica, Palazzo

L’OPERA
L’opera proviene dalla raccolta romana dei marchesi del Grillo. Poi nella collezione Vincenzo Coppi. 
La critica da tempo discute sulla sua attribuzione al Caravaggio. Fonte principale ne è il Baglione, che nel 1642 così scrisse: “ Colorì una Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, per i signori Costi.”
La stessa data di esecuzione non è certa: per alcuni 1594-95; 1595-96; per altri 1598-99.
Alcuni si discostano dall’attribuirla al Caravaggio per la plateale violenza della raffigurazione; particolarmente nella vistosa ferocia del gesto.
Altri invece del Maestro in tutto lo indicano, basandosi sugli elementi del ritmo compositivo: serrato; la caratteristica tipicamente caravaggesca di trattare il nudo; le fisionomie, tipiche nei volti dei dipinti caravaggeschi; specialmente il cupo tendone, che, quasi sangue raggrumato molto anticipa quello della Morte della Vergine.
D’altro canto non a molto serve un parallelismo del volto di Giuditta con quello di S.Caterina e della Maddalena, considerato che anche di queste due opere non è del tutto certa l’attribuzione. 
Ciò che è certo è il completo superamento del momento della raffigurazione di un naturalismo dolce e soffuso, elegiaco, in Caravaggio, per pervenirsi da parte di questi al punto centrale del dramma: l’orrore. 



2.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Decollazione del Battista, 1608;olio su tela; m 3,61x 5,20. La Valletta, Cattedrale di S. Giovanni.

L’OPERA

Eseguita per la maltese Compagnia della Misericordia, la tela è l'unica in cui compaia la firma dell'autore, purtroppo lacunosa: “f(rà) Michel Angelo”. 

Ed è proprio il ricordo della personale situazione in cui si trovava l’artista: braccato dai sicari dei nemici che aveva in Roma, e per mano di cui poi fu in Napoli gravemente ferito, che l’osservare la sua firma, vergata nello stesso rosso del sangue che sgorga dalla gola del Battista decollato, a suscitare un inevitabile senso d’angoscia; quasi che avesse presagito la sua prossima fine. 
Collocata nell'oratorio della Compagnia, la tela ha grandi dimensioni: m. 3,61x 5,20. 

Pur lontana dai grandi centri, venne visitata e studiata da molti artisti del '600. Il Bellori la descrisse accuratamente, quale:  
“Laonde  (dopo averne dipinto il ritratto) questo signore (Alof de Wignacourt) gli donò in premio la croce, e per la chiesa di San Giovanni gli fece dipingere la Decollazione del Santo caduto a terra, mentre il carnefice quasi che non l’abbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello dal fianco, afferrandolo né capelli per distaccargli la testa dal busto. Riguarda intenta Erodiade, ed una vecchia seco inorridisce allo spettacolo, mentre il guardiano della prigione in abito turco addita l’atroce scempio. In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello havendovi lavorato con tanta fierezza che lasciò in mezze tinte l'imprimitura della tela"; ciò è stato comprovato dai restauri avvenuti a Roma nel 1955.

Nella “Decollazione del Battista” l’azione è raffigurata nel suo termine. La violenza, cruda, del carnefice è già passata; il suo effetto raggiunto: la gola è profondamente recisa. La spada ormai deposta; a terra, in una significativa diagonale che, assieme alla positura del braccio ripiegato del carnefice ed al corpo supino del Battista forma un dinamico cuneo compositivo. Che s’affonda verso la parte anteriore sinistra della scena.
Rimane ormai, e con altro evidente simbolismo, il solo gesto di recidere con un coltello gli ultimi brandelli. Del collo, dell’evento, del dramma, della scena. 
E tale coltello, detto “Misericordia”, con cui era uso alleviare le ultime sofferenze procurando la morte, non ad altro allude che alla committenza stessa: la Compagnia della Misericordia. Che generalmente aveva il compito di consolare i condannati a morte.  

E’, anche qui, si suppone, un ulteriore intimistico, drammatico soliloquio dell’artista con la corposità ed il reale stato di pericolo in cui continuamente viveva: quasi uno sperare, od un apertamente chiedere, che una “misericordia” gli venisse, e presto, ad alleviare le sue sofferenze esistenziali d’una vita di fuggiasco: la grazia pontificia. 
Ma se ciò è leggibile, pur nel filtrato mondo simbolista delle compositive allusioni, altro, e di crudo, e di realistica conoscenza del da rappresentarsi pathos di scena, come anche del suo stesso rivedersi in essa, Michelangelo nel dipinto ci racconta.

Le figure, disposte a semicerchio in profondità e in altezza, annegano in un grande senso di vuoto, di stupefatto sgomento impresso allo spettatore. Il cupo interno d’un tetro cortile di carcere è oggetto di un violento rimbalzare di luci sulla decentrata scena principale.
Ma è il risalto della fioca luce, nell’arco a volta che le inquadra posteriormente e nel muro che chiude lo spazio, a suscitarci quell’ansia compartecipativa d’un dover immaginare gli eventi ormai temporalmente cessati. 
Eppure nelle tracce dall’artista lasciate evidenti, è presente tutto il senso dell’accaduto. Il “prima”: cupo, crudo, sanguinolento, di tortura, è ben presente nell’inquietante lunga corda penzolante; e che, raffigurata “mossa”, ancora vibrante di sofferenza, s’inserisce nel grosso anello di ferro alla parete.
La cordicella alle mani del Battista, dietro la schiena, ed il corpo proiettato nella caduta in avanti, sono fin troppo eloquenti. L’avido sguardo dei due galeotti – che quasi “bucano” – il costretto spazio dell’inferriata, è compartecipativo espediente d’un proiettare la dinamica compositiva in un retrostante buio ed ignoto spazio.
E’ la proiezione compositiva della spada, del corpo del carnefice, di quello del Battista. Quasi a bilanciare quella drammaticità dell’anello che “parla”.
Elementi accessori della scena principale sono tre movimenti, tre “linguaggi”, tre artifici: Il barbuto carceriere che con gesto di comando indica il vassoio di Salomé; questa che s’affretta, avida di raccoglierne la testa dell’odiata vittima, a porgerlo. Il volto in penombra; il corpo nella parte superiore solo ritmato dall’avvolgersi delle pieghe della camicia nella raffica di luce.


Unici elementi d’umano, forse, d’un partecipativo, forse, di “misericordioso”, appunto, si hanno e nel gesto inorridito della vecchia che s’avvolge la testa fra le mani, e nelle fitte pieghe della fronte del carnefice stesso. Coerentemente con il raffigurato gesto, e con il descritto mezzo: il pugnale della “misericordia”, è nelle fitte rughe della fronte del carnefice che è dato riscontrare una grande attenzione a ben compiere il gesto. Ed essendo come si è detto il gesto l’affrettare il morire, quindi il far cessare inutili sofferenze, è uno dei pochi elementi umani e pietosi dell’intera scena.
L’insieme è potente. Come altrove, l'illuminazione è determinante: provenendo lateralmente, accresce l'esistenza volumetrica dei protagonisti, li stacca dall'ombra, concentra su di essi lo sguardo rendendo nota una tragica vicenda.


Sono  elementi compositivi che ritroviamo nel “Seppellimento di Santa Lucia”, riprendendo la stessa idea del muro retrostante, ne è ancora accresciuto il significato della mutata concezione compositiva in Caravaggio. (GP)



Contributi






Dell'Orrore. E della Misericordia.

Ma si puo' rimaner sobri dopo aver veduto simili Opere? E averne letto le parole che corredano un riassunto di sentimenti che, in quella fioca luce, la disperazione sopravvive incrociando un complesso gioco di sguardi?

Come proprio in quella Luce, quel frugarle dentro, la Grazia divina che congela posizioni ed espressioni. Fanno orrore queste scene di Morte. Eppure....eppure esercitano oltre che devastazione, una forza inconsueta, un fascino sovrumano. Forse che questo 'palcoscenico' su quale si consuma il Dramma, altro non è che rovesciarsi dalle Tenebre. Da quel buio dello Sfondo, perchè è da lì, che ogni cosa nasce, in quell'angoscia, in quell'impressionante lirismo, l'inquietudine. Padrona e assoluta. Ma stretta, meravigliosamente avvinta, tra le maglie del Destino di Ogni. Non ne possiamo sfuggirgli.

Bellissimo Scritto.


(S., 05.03.11)

1 commento:

  1. Dell'Orrore. E della Misericordia.

    Ma si puo' rimaner sobri dopo aver veduto simili Opere? E averne letto le parole che corredano un riassunto di sentimenti che, in quella fioca luce, la disperazione sopravvive incrociando un complesso gioco di sguardi?

    Come proprio in quella Luce, quel frugarle dentro, la Grazia divina che congela posizioni ed espressioni. Fanno orrore queste scene di Morte. Eppure....eppure esercitano oltre che devastazione, una forza inconsueta, un fascino sovrumano. Forse che questo 'palcoscenico' su quale si consuma il Dramma, altro non è che rovesciarsi dalle Tenebre. Da quel buio dello Sfondo, perchè è da lì, che ogni cosa nasce, in quell'angoscia, in quell'impressionante lirismo, l'inquietudine. Padrona e assoluta. Ma stretta, meravigliosamente avvinta, tra le maglie del Destino di Ogni. Non ne possiamo sfuggirgli.

    Bellissimo Scritto.

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